Proposizione
XXXII dell’Etica di Spinoza, parte quarta: «In quanto uomini sono soggetti alle
passioni, non si può dire che concordino per natura». A tutta prima una frase
sconcertante. Il senso comune, infatti, ci insegna che sono soprattutto le
passioni condivise a unire gli uomini – e che le passioni sono vicine alla
natura. Ma il senso comune fa spesso a pugni con la filosofia; oppure: la
filosofia fa spesso a pugni con il senso comune. E questo è, in certa misura,
il suo compito, della filosofia: strapazzare il senso comune, scuotere i luoghi
comuni. Non dico nulla di nuovo e forse potrei aggiungere che il senso comune
ha in odio la filosofia proprio per questa ragione: perché ne esce malmenato e
deve ricorrere all’aspirina. (Sono un ottimista, lo so…). Anche qui non dico
nulla di nuovo. Torniamo a Spinoza. Affermare che non è la passione a unire gli
uomini ha precise conseguenze politiche – o sociali. Il convenire passionale
degli uomini è un falso consenso – un fallace agire di consenso. Pensiamo per
esempio al ‘sì di pancia’ di molti cittadini elettori. Ma perché la passione
genererebbe un falso consenso? Perché attraverso la passione non se ne ha, per
natura – si badi: per natura –, uno vero? È presto detto: la passione è
manchevole o, per meglio dire, impotente. Leggiamo la proposizione III della
parte terza: «Le azioni della Mente hanno origine dalle sole idee adeguate; le
passioni invece dipendono dalle sole idee inadeguate». Le passioni sono idee
inadeguate, mutilate, confuse; e lo sono – questo è il punto – perché non se ne
comprende distintamente e chiaramente la causa (cfr. Def. I, p. III). La mente
che accoglie queste idee inadeguate – queste passioni – è allora una mente
«passiva» (Prop. I p. III). Se si troverà un accordo su questa base, esso
accordo sarà un equivoco e un ritrovarsi nell’impotenza «o negazione», un
concordare sul nulla o sull’aria fritta – come quando si afferma «che la pietra
e l’uomo concordano [sul fatto che] sono finiti, impotenti […] superati dalla
potenza delle cause esterne» (Scolio alla Prop. III, p. IV). Verrebbe da dire:
un mal comune mezzo gaudio; e un condividere la scontentezza e la rabbia, e
immaginare nemici molto potenti (senza sapere il perché o sapendolo male, facendosi
la guerra l’un l’altro, azzannando i postini). Che Spinoza ci inviti ad agire cum grano salis, così e semplicemente?
Direi che ci dice qualcosa di più: ci insegna a diffidare del collante della
passione. Ma de hoc satis.
giovedì 31 gennaio 2019
Spigolature (quasi una rubrica)
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Thomas Bossard |
Di Banana Yoshimoto ho recuperato presso il solito mercatino due librini: Kitchen (a) e L’abito di piume (b). Al prezzo di un euro l’uno mi spiaceva lasciarli dove stavano benché io sia quasi indigente – indigenza che è da un lato l’indigenza del corpo (come insegna Galimberti in un dei sui soliti libercoli sulla τέχνη) e dall’altro quella di un tizio che non può permettersi una vacanza al mare (che in questo momento non avrebbe granché senso). Di Banana ho letto però Lucertola (un euro al mercatino). L’ho letto tempo fa e non saprei dire nemmeno si mi sia piaciuto. Forse no considerata la resistenza a incominciare la lettura di a e b. Una cosina mi aveva però ‘intrigato’ (ma non troppo, per dirla con un’indicazione agogico-dinamica e musicale…). La protagonista va a un funerale e vi scopre una solennità e una comunione, una… mi sono distratto per mescolare il sugo… forse era partecipazione… «un’energia – cito – sperimentata solo nel sesso di gruppo». Questo accostamento stucca e poi è messo lì apposta per stupire e però, insomma, sopra ho detto che intriga. Vero è che, sull’argomento v’è, dice il filosofo Frank R. Wallace, «a wide range of reactions». L’argomento non è il funerale, va da sé… Mi sono perso; parlavo all’inizio di Banana Yoshimoto e, insomma, vi domando delle vostre esperienze…
Su Tinder non cucca a causa dei suoi 69 anni e allora Emile
Ratelband, entertrainer, come si
definisce (e cioè entertainer e trainer), imprenditore e politico,
autore di libri, ovviamente, fra cui Somatology,
che offre – offrirebbe – istruzioni per esaminare le caratteristiche fisiognomiche
e per determinare come funziona una persona (tre i tipi di somatici: il
cacciatore, il collezionista e il filosofo…), Emile Ratelband chiede al
tribunale di Arnhem di levargli vent’anni dalla carta d’identità. E d’altra
parte Emile Ratelband si sente sufficientemente in forma per averne 49. Ora,
queste facezie di Emile Ratelband mi hanno richiamato altre facezie di Guido
Ceronetti. Ricordo, per esempio, che tempo fa propose di estendere il servizio
erotico volontario agli anziani. Quel medesimo articoletto si apriva con la parola
«infallibile [che] ci dice l’essenziale di Sofocle: ‘La più grande sciagura per
un uomo è una lunga vita’».
Fragilità della scrittura – o del pensiero. Ecco, infatti,
ecco che una parolina, un pensierino si fanno strada timidamente, si aprono timidamente
un varco e… finiscono in vacca (che è termine tolto dalla terminologia della
bachicoltura – almeno secondo il Panzini o il Tommaseo). Il solito cicaleccio
sulle scale, il solito squillo di tromba, la gatta gnaulante… Ma poi è tutta
questione di volontà – di volontà, come sanno anche i bambini. «Avete mai letto
Nietzsche?» chiede il filosofo a all’uomo che, al tavolo del bar, si accompagna
a un bambino, al figlioletto. «No» risponde l’uomo; «Ebbene, leggetelo,
riuscirete certamente anche voi a fare i gelati». La storiella la racconta Leo
Longanesi in un libretto intitolato Parliamo
dell’elefante. Fatto curioso: il gelato materializzato dal filosofo costa
quattro volte quello del gelataio. Ma
vogliamo pagarla, e pagarla profumatamente, l’opera dello spirito? Mica
semplice materializzare un gelato – un gelato: un pensiero, una parola, la
parola che ci vuole in questo momento, au
moment voulu…
«La verità
non è un pesce da tirare in faccia ma deve aiutare a fare chiarezza» dice
Enrico Solmi, évêque de Parme. Allude al recente provvedimento di Pizzarotti,
sindaco di Parma: al provvedimento di cui abbiamo letto sui giornali. Su
Youtube trovo un breve filmato del nostro sopracciò dove il sintagma verbale
‘pescare’ torna con tanta insistenza da produrre un effetto comico irresistibile.
Tutti conosciamo le complesse valenze simboliche del pesce e della pesca nella
tradizione cristiana, ma questa insistenza di Solmi mi ricorda Tognazzi e
quella sua passione per la maionese nel film tratto dal romanzo di Chiara.
Non so voi
ma io non mi sorbirei il caffè Malongo alle cinque del mattino e nemmeno alle
sei o alle sedici; e sì che non sono per nulla esigente in fatto di caffè.
Questo
inchinarsi di fronte alla carnalità – anzi ai genitali tout court –, questo inchinarsi è tuttavia privo di passione, di
gioia e persino di sofferenza. È un po’ l’omaggio che l’uomo comune, quello del
bar (o del ‘bistro’, del ‘bistro’ considerato che siamo in Francia) tributa a
ciò che enfaticamente potrebbe chiamare ‘il motore della storia’ se solo
conoscesse questa espressione enfatica. È cioè un discorso un po’ sporcaccione
e… e terra terra. (Quanto lontano il prodigioso Fourier che parla d’amore!). In
quanto motore della storia, questo discorso incorpora tutta quanta la cultura
o, per meglio dire, la racchiude nelle mutande. Se facciamo per esempio di
Thomas Mann e di Marcel Proust i vertici della cultura rispettivamente tedesca
e francese, vertici vertiginosi, raggiunti al termine di una scalata di otto
secoli; se immaginiamo che Thomas Mann e Marcel Proust abbiano posseduto tutta
la cultura del mondo e tutta l’intelligenza del mondo, ebbene, non possiamo
trascurare gli organi genitali e il fatto che si fossero prosternati, con
passione però, davanti agli organi genitali – non importa se femminili o
maschili. E così nel movimento animale (per dirla garbatamente con Fourier) si
sarebbe dissolta tutta quanta la civilizzazione europea. Presto, dunque, una
ragazzina per Thomas Mann e una Rihanna (avete letto bene) per Proust! Ora
dobbiamo prestare attenzione al fatto che l’uomo che fa questo discorso, questo
discorso spropositato, le pilier de bar,
è (anche) impotente; e che questo uomo (impotente) è forse, anzi, è sicuramente
l’autore di Sérotonine. (Dedurne
l’impotenza dei frequentatori di bar è forse un azzardo). Bene, non mi resta
che ringraziare Jean-Marc Proust (parente?) che per primo – credo – ha
ricondotto il romanzetto a una delle sue fonti discorsive: il bar.
C’è
un’ansia bruciante – vi piace questo aggettivo? –, un’ansia bruciante che non
riesci a spegnere e a nulla vale agghindarsi di frasche per somigliare a una
pianta come pure qualcuno ha fatto, e come testimonia l’antropologia culturale,
e scrutare il cielo nell’attesa delle nuvole cariche di pioggia. Certo quel
qualcuno invoca davvero la pioggia, ma chi può negare sia parimenti bruciato
dall’ansia? Se l’ansia è bruciante, nota Giordano Bruno da qualche parte, non
ti si vincola facilmente e nemmeno Venere, se ti piace Venere, saprebbe
soggiogarti. Che sia questo il vantaggio dell’ansioso sull’uomo pacifico? E
d’altra parte è l’ansia a vincolarti…
Il padre di
Joe Ackerley – lo racconta Joe Ackerley – era un bel tipo, di quelli garbati,
di quelli che siedono in poltrona a leggere il giornale scaccolandosi
svagatamente. A Joe Ackerley e a suo padre mi ci ha fatto pensare ieri il
millesimo automobilista con l’indice dentro il naso – l’automobilista ha sempre
un indice libero e disponibile per il disbrigo di questa faccenduola; un indice
ritto e paffuto e sodo come quello dell’omino Bialetti. In ogni modo Joe
Randolph Ackerley si rammaricava di questa imperfezione paterna, imperfezione
che ne turbava il ritratto – sempre che un ritratto si lasci turbare. Gli è che
un certo credito passa attraverso l’oblio di certe altre cerimonie corporee. Il
professor *** che vedete spesso in televisione dissipò ai mei occhi, ai miei
occhi giacché gli sedevo accanto, dissipò, dicevo, buona parte del suo credito
allorché combinò un disastro ficcandosi incautamente il pollice (!) nel naso.
Com’è che gli riuscì ancora di sincerarsi che in quel seminario ristretto
avessimo letto tutti quanti il saggio sull’opera d’arte di Heidegger (quello
sugli zoccoli di Van Gogh)? Stendendo un fazzoletto sul volto come Nerone. Il
corpo del filosofo, di un filosofo, di un pensatore, di uno scrittore, di un
intellettuale… questo corpo non dovrebbe sostanziarsi che nel corpo del testo;
e, dato ciò per sicuro, è solo ruzzolando per la scala dell’essere, che altri
chiama vita sociale, che saprebbe ritrovare la ‘biologia’. Quando gli avvenisse
di ruzzolare, col dito nel naso, con le comparsate in TV (in veste di opinion
maker), con la dubbia fama di molestatore di studentesse o di ragazzini, sarebbero
guai e fazzoletti. (Dall’Iperuranio alla caccola sul dito non c’è che un
passo). C’è anche la morte, alla fine, va da sé, ma questa toglie di mezzo
l’ingombro, e cioè il corpo fisico, reale: ciò che ci si proponeva sin
dall’inizio (e che Pitagora realizzò con mezzi modesti nascondendosi dietro una
tenda). Capisco meglio quella frase di Derrida: «Ogni cogito ergo sum implica
un ‘io sono morto’».
L’ho
già detto che non tollero più l’aggettivo “potente” in ambito critico-estetico?
Com’è come non è, ci pensavo a pranzo, mentre mi gustavo un piatto di agnolotti
alla piemontese in brodo.
Ah! Ma hanno buttato il sale per terra? In
testa dovrebbero metterselo! Lo sa cosa dicevano i latini? Cum grano Salis, e
cioè con il grano arriva la sapienza...
(Un tizio
dalla capigliatura fiammeggiante, poco fa, dalle mie parti)
Fra i pregi
dei cosiddetti social network il fatto che persone che non si sarebbero mai
parlate si parlino. E questo fatto va collocato anche fra i difetti dei
medesimi social network.
L’altro dì
in pizzeria una famigliola di quattro, lui, lei e due figlioli; non uno che non
allumasse lo schermo dello smartphone; e poiché s’era in pochi, loro ed io in
un canto, imperava un silenzio assurdo e ferale. In ogni modo la paura di
perdere il telefonino ha già un nome: nomophobia
(no-mobile-phobia)
Parliamo
invece di Filippo Facci. Filippo Facci è un uomo allampanato e pallido, con un
viso asimmetrico e un prognatismo pronunciato. E questo è grossomodo tutto
quello che sappiamo di Filippo Facci. Ci sono anche le sue idee, di Filippo
Facci. Sue? Fra le idee di Filippo Facci questa: i gay e il PIL che non cresce
sono una fotografia della nostra attuale situazione. Si è cercato un nesso tra
il PIL e i gay e non lo si è trovato. Eppure il nesso è lì: il PIL che non
cresce è come i gay che non si riproducono: fondamentalmente ‘infruttifero’.
Filippo Facci non lo ammetterebbe perché non lo ha capito bene neppure lui ma è
così; non ammetterebbe mai che le sue (pseudo)idee sono quelle di un neofondamentalista
qualunque…
È una notizia sensazionale rimbalzata dagli USA e rilanciata
su alcuni quotidiani nazionali cattolici e conservatori, neofondamentalisti; è
una notizia destinata a sollevare molto scalpore in quegli ambienti lì,
pro-life, e confezionata apposta per i pro-life zealots. La notizia è questa:
lo stato di Nuova York ha (avrebbe) promulgato una legge che consente alle
donne di abortire anche il giorno prima del parto. Ovviamente è una bufala, una
fake-news. Non ti stupisce più di tanto che talune testate la rilancino –
taluni giornali cattolici e conservatori, neofondamentalisti; non ti stupisce
perché sei scafato. Invece – ma perché invece? – la bêtise dei lettori-commentatori ti scoccia, quella bêtise che somiglia a un’attività
frenica, a un singhiozzo, e che non arretra nemmeno davanti alla traduzione
parola per parola del comma incriminato della legge incriminata.
lunedì 3 dicembre 2018
Visto in America...

giovedì 8 novembre 2018
Contro i bei tempi andati...
Non
troverete in questo recentissimo libretto intitolato (in italiano) Contro i bei tempi andati un’apologia
del Progresso. Con stile discorsivo, non privo tuttavia di un pizzico di
malizia, di ironia, Michel Serres ne appura invece l’ovvietà. Di più: il
lettore attento non troverà in queste pagine la parola progresso che alla fine,
dove non fa più effetto. «Non sono naïf, non sono uno stupido» ha dichiarato
Michel Serres in una recente intervista; e avrebbe senza meno potuto proseguire
con le parole del nostro Bianciardi: «Finché il mondo sarà mondo e gli uomini
saranno uomini, la cuccagna starà di casa e di bottega insieme all’araba
fenice, il meglio sarà sempre il meno peggio, il più gran bene sarà il meno
male».
Michel
Serres ci ha abituati da tempo – da molto tempo – a un filosofare che passa
attraverso la messa in scena di personaggi
concettuali. L’elenco è consistente: Hermès, l’Interférent,
le Parasite, Atlas, l’Hominescent, le Malpropre («il mal sano» nella traduzione di
E. Schianno di Pepe per il Melangolo, traduzione infelice per ragioni che non
mette conto addurre qui), Petite
Poucette (Pollicina
in italiano, ma Bollati Boringhieri ha optato per un altro titolo, giacché
bisogna aggiungere che spesso questi personaggi dànno il titolo ai libri;
dunque Pollicina diviene Non è un mondo
per vecchi: una scelta daccapo infelice) ecc. ecc. Anche l’ultimo volumetto
(o pamphlet) dell’ottantasettenne
Serres, pubblicato in Francia l’anno passato da Le Pommier e in Italia
quest’anno, per la traduzione di Chiara Tartarini, di nuovo da Bollati
Boringhieri, mette in scena dei personaggi: Pollicina e Vecchio Brontolone (Grand-papa Ronchon). Il titolo è anche questa volta modificato: Contro i bei tempi andati; l’originale è
infatti un ironico e antifrastico e canzonatorio C’était mieux avant!
Indugio sui
personaggi e smorzo la polemica sulle scelte traduttive. In un recente volume
di entretiens intitolato Pantopie ou le monde de Michel Serres (Legros
& Ortoli, 2016),
non tradotto in italiano, Serres ne ha detto qualcosa. Innanzitutto di
ignorarne l’eziologia e di essersi sempre sentito a disagio con i concetti:
«L’idea astratta mi è sempre parsa, nella sua formalità, una maniera di pensare
completamente obsoleta» (p. 70, trad. mia). Ho utilizzato, qui sopra,
l’espressione personaggi concettuali.
Il riferimento, ovvio, è a Deleuze e Guattari che la impiegano in Che cos’è la filosofia. La rispondenza
non sfugge agli intervistatori di Serres (Legors & Ortoli, 2016) che non a
caso chiamano in causa Deleuze (dimenticandosi di Guattari). Ciò che v’è di
veramente interessante nei personaggi concettuali di Deleuze e Guattari (1996),
e di paradossale, sta in questo: «[Essi] sono gli eteronimi del filosofo,
mentre il nomi del filosofo è il semplice pseudonimo dei suoi personaggi. Io
non sono più io, ma un’attitudine del pensiero a vedersi e a svilupparsi
attraverso un piano che mi traversa in numerosi punti»; detto più brevemente:
«Intervengono nella creazione stessa dei suoi concetti [del filosofo]» (p. 53).
Serres respinge tutto e con ragioni che debbono apparirgli buone. «I miei
personaggi – dice – sono come dei nomi in codice. Sono volta a volta individuali,
specifici e generici»; ancora: sono i miei contemporanei. Degli individui
contemporanei; sono degli individui generici degli spécimens»
(Legros & Ortoli, 2016, p. 71, trad. mia). Eppure il fatto che siano i suoi
(e nostri) contemporanei afferrati nella loro esemplarità non gli impedisce in
nessun modo di svolgere il ruolo di personaggi concettuali: e cioè, p.e., a
Michel Serres di pensare attraverso Pollicina, che è personaggio simpatico, o
attraverso Vecchio Brontolone, antipaticissimo. «Potenze di concetti», dicono
Deleuze e Guattari (1996, p. 55).
Rieccoci ai due
personaggi che animano Contro i bei tempi
andati. (Ve n’è un terzo, a dire il vero, ed è il medesimo Michel Serres
che indulge qui, più che mai, all’autobiografismo). Pollicina, che aveva già
fatto la sua comparsa nel libro eponimo, è, per così dire, il nativo digitale,
il/la giovane con lo smartphone
sempre tra le mani e i pollici sullo schermo; è social ed è anche sociable; coscienza ecologista e
multi-culti; sempre politically
correct (ma non in
senso deteriore). Vecchio Brontolone è il locutore della locuzione c’était mieux avant, era meglio prima; è benestante,
prospero, tradizionalista e nostalgico, numericamente prevalente,
elettoralmente decisivo. Pollicina e Vecchio Brontolone abitano questo nostro
mondo, stanno dentro l’attualità, l’una di fronte all’altro: il sorriso di
Pollicina e la mutria di Vecchio Brontolone. Forse l’autobiografismo ha una
specie di giustificazione: se Vecchio Brontolone ha l’età di Serres, Serres può
testimoniarne l’impostura; e, in effetti: «Io a quei tempi c’ero. Posso stilare
un bilancio da esperto. Eccolo» (Serres, 2018, p. 10). Il bilancio appunto è il
‘contenuto’ del libretto; ed è un bilancio, nella sua disarmante prevedibilità,
affatto persuasivo. È sufficiente scorrerne il sommario dove già fanno la loro
comparsa caudilli, duci, grandi timonieri, la guerra e la pace, le ideologie,
le malattie, la pulizia e l’igiene, la schiena contadina, l’obsolescenza degli
attrezzi ecc. ecc.* Meglio dopo, dunque.
Ottimismo
del wishful
thinking (per dirla
con un Arbasino d’annata)? O come pretende Carlo Formenti, che però, medita su
un altro pamphlet di Serres, e cioè
su Tempi di crisi, un concentrato di
quel «grande racconto che il fulmineo diffondersi delle tecnologie di rete ha
alimentato negli ultimi trent’anni» (Formenti, 2011, p. 6)? Non è questo il
luogo in cui ripercorrere la genealogia di questo grande racconto
contraddittoriamente postmoderno che
affonda le sue radici nel positivismo e «nell’utopia anarchica delle reti
tecnologiche» (Formenti, 2011, p. 10); e che Serres, nel nostro testo,
compendia così: «Tanti emittenti quanti riceventi: finalmente i molti hanno
conquistato anche l’emissione. Così si disegna un nuovo spazio di
comunicazione, a forma di rete e di intrecci, che realizza l’utopia preliminare
alla democrazia» (Serres, 2018, p. 66). Ma Serres non ignora l’astroturfing dei social media (del Web 2.0) che consiste in una nuova forma di
«fascismo emozionale» (Barile, 2011), nella diffusione di fake news e nell’accumulazione «di capitale sociale e relazionale»
(Formenti, 2011, p. 19); semplicemente, si fa per dire, ne sottovaluta «il
potenziale populista autoritario» (Formenti, 2011, p. 19); e si accontenta, si
fa per dire, di sfumare l’onniscienza elettronica di Pollicina dal momento che,
scrive, «parlo di informazione, non sempre di conoscenza» (Serres, 2018, p. 49;
cfr. anche Legros & Ortoli, 2016, cap. 10), di additare il «gioco stupido e
pericoloso» (Serres, 2018, p. 15) dei social
network dove ci si oppone ideologicamente. Sennonché sono proprio i Trump,
i Putin, la Brexit, l’economia, i conservatori, i populisti – gli esempi sono
di Serres! (2018, p. 72) – ad aver saputo approfittare della fluidità, della
dolcezza dei segni, dei simboli e, insomma, delle scienze della comunicazione,
delle piattaforme Web 2.0.
Eppure
Serres conosce l’ambiguità di ciò che ha definito doux.** Per esempio in un libretto come Le Mal Propre ha parlato di una pollution
douce, di un inquinamento dolce fatto di segni e di loghi, di réclame, di suoni strillati da
altoparlanti (Serres, 2008, p. 44). E nel nostro pamphlet troviamo Pollicina
immersa «nel dolce del virtuale» (Serres, 2018, p. 14) un po’ come Don
Chisciotte lo è nelle sue «stramberie libresche».***
NOTE
* E sui
templi della cultura, ciò che indurrà al riso: «All’epoca, il marxismo regnava
sovrano in quelle auguste aule [dell’École normale supérieure], e lo studente
citava i geni d’obbligo; Stalin, Mičurin, Mao… Al momento del dibattito dissi
una cosetta che fece infuriare il divo in erba, ovvero che il lavoratore
manuale si lavava le mani prima di pisciare mentre quello intellettuale lo
faceva dopo». E contro Althusser e compagnia: «Non solo non sapevano un bel
niente di scienze, neppur di economia […] ma, essendo di buona estrazione
borghese, raramente avevano messo le mani nella morchia o nel fango» (Serres,
2018, p. 32).
** Dolce in
italiano, ma va detto che doux, come soft d’altra parte, ricopre un’area
semantica più ampia del nostro dolce.
*** «Con un
fiume di parole, se non di azioni, i Vecchi Brontoloni creano una atmosfera di
melanconia sui tempi attuali. Influenzano il morale delle Pollicine e
ostacolano le innovazioni, conquistando il potere un po’ dappertutto. Una volta
i padri uccidevano davvero i figli; ormai li uccidono nel virtuale» (Serres,
2018, p. 71).
BIBLIOGRAFIA
Arbasino,
A. (1978) In questo Stato. Milano: Garzanti.
Deleuze, G.
& Guattari, F. (1996). Che cos’è la
filosofia. Torino: Einaudi.
Formenti,
C. (2011). Il gran récit della rete. aut
aut, 347, 6-22.
Legros, M.
& Ortoli, S. (2016). Pantopie ou le
monde de Michel Serres. De Hermès à Petite Poucette. Paris: Le Pommier.
Serres, M.
(2008). Le Mal Propre. Paris: Le
Pommier.
Serres, M.
(2009). Il mal sano. Genova: il
melangolo.
Serres, M.
(2010). Tempi di crisi. Torino:
Bollati Boringhieri.
Serres, M.
(2012). Petite Poucette. Paris: Le Pommier
Serres, M.
(2013). Non è un mondo per vecchi,
Torino: Bollati Boringhieri.
Serres, M.
(2017). C’était mieux
avant! Paris: Le
Pommier
Serres, M.
(2018). Contro i bei tempi andati.
Torino: Bollati Boringhieri.
Spigolature (quasi un rubrica)
Al mio rientro, chez
moi, sorprendo Mr. X sul cancello: mi ruba l’automobile. «Rubare non va
bene, rubare porta male!» gli dico mostrandogli la vecchia foto in bianco e
nero che mi immortala mentre capitombolo dalla scalea marmorea di cui vado
trafugando i gradini.
(Stamani, all’alba, l’ultima frase della immancabile voce
narrante dei miei rari sogni).
***
Montaigne (Essais,
III, VIII): «[…] aimant à gratifier et nourrir la liberté de m’avertir, par la
facilité de céder – oui, à mes dépens». Una facilità nel cedere – nella
conversazione, anche in quel curioso tipo di conversazione che avviene tramite
i libri: di questo parla qui Montaigne –, una facilità nel cedere anche a mes
depens, a mie spese. D’altra parte in gioco c’è la verità: la verità che dice
di festeggiare e accarezzare «en quelque main que je la trouve» – in chiunque,
insomma. Nel libro di Compagnon intitolato “Un’estate con Montaigne” ritrovo il
medesimo passaggio e questa volta «la facilità di cedere» è tradotto con
«arrendevolezza». Questa parola (italiana) ha forse un senso più preciso della
locuzione originale (o tradotta letteralmente). È forse segno di una debolezza
di carattere? Eppure sappiamo che Montaigne simula e che gli è capitato di
cambiare certi passaggi dei suoi scritti (o ragionamenti) «plus par raison de
civilité, que par raison d’amendement». Ciò che importa è lasciare agli altri
la libertà di parlare: si sa mai che ci azzecchino una volta o l’altra. — La
Lunella dannunziana ritaglia una figurina, un’immaginetta «secondando con le
abili dita l’arrendevolezza del foglio». Anche la materia per restituire la
(una) verità, quella della figura, deve cedere, rendersi malleabile…
***
«È come affittare un sicario» ha detto Jose Mario l’altro dì
all’udienza generale. Verrebbe facile correggerlo sul punto: un sicario non si
affitta bensì si assolda; e chissà poi che intendeva Antonio Oregón titolando
un testo El hombre que se alquila!...
verrebbe facile e quindi finiamola qui, in questo punto preciso. La frasetta di
Jose Mario mi ha richiamato alla memoria un editoriale di Guido Ceronetti sulla
«Stampa» – risale al primo di maggio del 1985 – sul defunto Karol Józef che
all’epoca non era affatto defunto ma sulla cui testa, a quanto dice Ceronetti,
pendeva una taglia di quindicimila fiorini olandesi. Al ridanciano, da
incontrarsi sull’autobus, Ceronetti oppone «un fremito di ripugnanza», giacché
la tenebra è la tenebra anche nello scherzo, nella baia, nella derisione.
Eppure il titolo dell’articolo, «Una taglia sul papa», sembra ‘composto’ per
far ridere. O sbaglio? Certo il rispetto per il potente, per il reggente di una
grande Chiesa (in agonia), Ceronetti ci tiene; certo lo scherzo, fosse tale,
sarebbe di cattivo gusto o pura monnezza, e però – però – siamo tutti «un po’
parricidi». Non lo dico io: lo dice Ceronetti. E perché lo saremmo? «Siamo in
tanti a essere delusi della sua parola, che veste di religioso quel che è
genericità di luoghi comuni». E prosegue: «Almeno sapessero, i papi, fare le
citazioni giuste, ripetere al momento giusto, con gravità, poche parole di
Scrittura, senza metterci del proprio». Ma la disillusione del quasi parricida
è, quanto all’argomento, proprio la stessa: perché un pontefice «va a
proclamare in continenti-conigliera [ma anche ovunque] che guai, guai a
frenare, a voler frenare, la natalità strabocchevole»? Silvio Viale, una
vecchia conoscenza, si smarca: «Sono un medico non un sicario»…
***
Che cosa ho più letto che non ricordo in questo istante?
Murgia sì, la ricordo, in anteprima su Amazon: due paginette del suo Istruzioni per diventare fascisti
(Einaudi) che principiano col seguente titoletto: “Necessaria premessa di
metodo”. È il metodo (méthodos) che bene o male Murgia intende seguire? No,
solo una roba ironica in cui Murgia dice che il metodo (per diventare fascisti)
lei lo offre più avanti, nel libro. Dunque le istruzioni (il metodo) vengono
dopo e più che istruzioni sono (sarebbero) «istruzioni di linguaggio,
l’infrastruttura culturale più manipolabile che abbiamo». È il linguaggio una infrastruttura
(culturale)? e quanto il crollo del ponte Morandi ha influenzato questa
luminosa definizione murgiana? Due domandine che butto lì a caso. La riuscita
del metodo prevede un test, che sta alla fine del libro, e che «l’Espresso»
anticipa da qualche parte. Il test, come la premessa di metodo (necessaria), è
una fesseria e dunque… Ma giusto ora mi viene mente cosa ho letto, sempre in
anteprima, quest’oggi: Le Dieci ragioni
per cancellare subito i tuoi account social di Jaron Lanier (pubblicato da
Il Saggiatore – inspiegabilmente, come inspiegabilmente Einaudi pubblica
Murgia). Anche qui la palla su quanto le menti siano manipolabili e in fondo
questa roba la ascoltiamo da una vita e oramai con una punta di distrazione,
senza nemmeno domandarci se vi sia qualcosa come una spruzzatina di sociologia
o di psicologia o di psicanalisi (sempre a buon mercato).
***
Scrivo una recensione a Scrivere
di Franco Rella e per una serie di convergenze, fortuite (una Eterna Ghirlanda Brillante e grazie Elena!), giungo a Odiare la poesia di Ben Lerner che ho
cominciato a leggere oggi. Me lo ha consegnato, l’opuscolo, il mio vicino in
piazza, il mio vicino al quale era stato consegnato mentre vagliavo gli yogurt
al supermercato. Il libro di Lerner si apre con una cosina di Marianne Moore.
Ve la trascrivo qui di seguito:
I, too, dislike it.
Reading it, however with a perfect
contempt for it, one discovers in
it, after all, a place for the genuine.
Questo per dire che un libro autentico, genuino, rimanda
sempre ad altri libri e che gli incontri sono spesso “fortuiti”. Insomma, per
dire delle banalità. The Hatred of Poetry,
tradotto in francese è Haine de la poésie,
e Haine de la poésie è il titolo che
in un primo momento Bataille aveva scelto per il suo racconto L’impossibile (letto a vent’anni o poco
più”). E Bataille e quel suo racconto, inutile che lo dica, li menziona Rella
assieme a Platone, al Platone della Repubblica
su cui, a sua volta, Lerner dice qualcosa.
***
Stavo giusto pensando a questa predilezione di Gramellini
per i pedalini. Sul «Corriere», nello spazio che il quotidiano gli riserva ogni
santo giorno, ci invita a togliere i telefonini prima dei pedalini. Ora,
«togliere i telefonini» non capisco bene che significhi ma capisco bene che
togliere i pedalini è un’altra cosa. Non so bene come la facciate questa cosa
di sfilarvi i pedalini in certi momenti, nell’amore: di slancio o indugiando un
po’? annusandoli fugacemente? ficcandoli sotto le froge del/della partner? …
«Siate radicati nell’amore – diceva Paolo (Ef, 3, 17-19) – affinché siate
capaci di cogliere quel che sono la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la
profondità…». Alludeva sicuramente ai piedi o ai calzini che ne sono il simulacro…
Ciò che do per certo è questa predilezione di Gramellini per i pedalini.
***
Di Banana Yoshimoto ho recuperato presso il solito mercatino due librini: Kitchen (a) e L’abito di piume (b). Al prezzo di un euro l’uno mi spiaceva lasciarli dove stavano benché io sia quasi indigente – indigenza che è da un lato l’indigenza del corpo (come insegna Galimberti in un dei sui soliti libercoli sulla τέχνη) e dall’altro quella di un tizio che non può permettersi una vacanza al mare (che in questo momento non avrebbe granché senso). Di Banana ho letto però Lucertola (un euro al mercatino). L’ho letto tempo fa e non saprei dire nemmeno si mi sia piaciuto. Forse no considerata la resistenza a incominciare la lettura di a e b. Una cosina mi aveva però ‘intrigato’ (ma non troppo, per dirla con un’indicazione agogico-dinamica e musicale…). La protagonista va a un funerale e vi scopre una solennità e una comunione, una… mi sono distratto per mescolare il sugo… forse era partecipazione… «un’energia – cito – sperimentata solo nel sesso di gruppo». Questo accostamento stucca e poi è messo lì apposta per stupire e però, insomma, sopra ho detto che intriga. Vero è che, sull’argomento v’è, dice il filosofo Frank R. Wallace, «a wide range of reactions». L’argomento non è il funerale, va da sé… Mi sono perso; parlavo all’inizio di Banana Yoshimoto e, insomma, vi domando delle vostre esperienze……
mercoledì 17 ottobre 2018
A concerto...
È una musicista
versatissima e lo ha dimostrato sabato scorso suonando un repertorio arduo
(grandi pagine chopiniane e un po’ di Liszt, il Notturno di Respighi, il Clair
de lune dalla Suite bergamasque
di Debussy, una piccola Vision fugitive
di Prokof’ev) su un pianoforte non eccelso (ci ho strimpellato sopra) in un
luogo non adattissimo (la basilica di San Vittore martire in Arsago Seprio).
Parlo di Irene Veneziano. Quando mi capita di ascoltare pianisti così, il primo
problema, per me, è rimanere seduto. Non so quante volte mi sia contorto sulla
lunga panca di noce dove tre donne occhialute stavano immobili; e poiché
distavo pochi decimetri dalla pianista, spero tanto di non averla seccata con i
miei gesti, le mie boccacce e le lagrime che mi bagnavano il ciglio sinistro al
‘Molto più lento’ del primo Scherzo.
Talvolta inforcavo gli occhiali e guatavo all’indietro le teste grigie e
ciondolanti dei centenari, giacché il pubblico è spesso costituito da centenari
irrigiditi o stecchiti. Sono persuaso del fatto che i giovani trovino la
musica, la musica definitiva, sempre troppo ardua, traumatizzante; e d’altra
parte ci sentono ancora. Comunque c’erano anche i giovani e le mie – sui
giovani e sui vecchi – sono solo malignità; infine, abbiate pazienza, sono un osservatore…
Fra i giovani c’era pure un giovane sacerdote, seduto di fronte a me, che al
secondo sbadiglio rattenuto s’è sentito sibilare all’orecchio uno ‘Shhh’ come se avesse proferito una
parolina sconveniente. Ma gli ho fatto anche un sorriso benché un po’ tirato…
Del resto, non so se sia una scusante, aveva perduto il suo sodale: un altro
sacerdote, sedicente trombettista, che accampava il pericolo di un contagio
simulando un raffreddore col naso pinzato tra indice e pollice per andare a
stendersi chissà dove in fondo, nei pressi dell’uscita. Poi sicuramente era, il
primo sacerdote, scocciato dalle parole della introduttrice mèchata, la quale
aveva principiato il suo discorsetto ringraziandolo in qualità di padrone di
casa; al che lui aveva alzato gli occhi al cielo, ché in una chiesa il padrone
di casa sta senz’altro fuori e in alto. Avvertita, la poveretta aveva, come
Pompeo, rizzato il braccio ma inavvedutamente a indicare la porta della
sagrestia, eccetera eccetera…
mercoledì 12 settembre 2018
Il lavoro dei morti
È noto ciò
che racconta Cicerone su Diogene. Diogene impose ai discepoli di lasciare
il suo corpo senza sepoltura: che gli uccelli e le altre bestie selvagge ne
facessero pure scempio. Diogene è un caso limite: il caso di un pensiero che
provocatoriamente nega o contraddice quella cura per il cadavere che sta alla
base di ogni cultura e che, in qualche modo, è connesso al sapere antropologico
per eccellenza: la morte.
Con questo
riferimento a Diogene e a Cicerone si apre il bel libro di Thomas Laqueur
intitolato The Work of the Dead: A
Cultural History of Mortal Remains che ho letto qui e là (un po’ in
francese, un po’ in inglese) e che mi piacerebbe vedere tradotto in italiano.
Mille pagine eruditissime di storia, con un gusto per l’insolito che stuzzica –
così almeno mi assicura Roger-Pol Droit che se lo è sciroppato per intero.
Non
trascurabile il fatto che il nostro storico, nel corso dell’estate del 1980,
dissezionò un cadavere assieme a tre compagni di studio. Ovviamente stavano
alla facoltà di medicina.
Anche Keats
ebbe a che fare coi cadaveri sui tavoli di dissezione. All’epoca, si fa per
dire, c’era penuria di cadaveri e Sir Astley Cooper pagava i grave-robbers (resurrection
men)…
martedì 11 settembre 2018
Sulle chiusure domenicali
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Thomas Bossard |
Pigi Battista fa l’elenco, provvisorio dice, dei lavoratori abitualmente e ancestralmente domenicali. Perché provvisorio? Forse intende integrarlo via via che gli esclusi invieranno mail di lagnanza. Eppure menziona finanche i maestri di sci. A chi sarebbero venuti in mente i maestri di sci?
Leggo anche che i centri commerciali, quelli con l’ascensore o la scala mobile panoramici e una teoria di negozietti di cianfrusaglie affacciati alle balaustrate e i vecchi e i bambini seduti sulle panchine di plastica, intenti a sorbirsi una bibita o il gelato, e i borseggiatori ovunque…, sono (sarebbero) le nuove piazze italiane. (Lo scrive sempre lui, Pigi Battista, qualche linea più in giù). Certo nelle piazze allo struscio, attività igienica, si è sempre mescolata la chiacchiera, attività edificante. Aggiungo le esecuzioni capitali, i comizi dei politici…
La Chiesa plaude e non è un caso che le chiese si affaccino spesso sulle piazze. Propongo di aprirle nei centri commerciali. È una proposta allotria? Jean Genet proponeva di aprire i teatri nei cimiteri…
C’è chi fa del terrorismo: sarebbero quarantamila i posti di lavoro a rischio nel caso malaugurato in cui venisse imposto lo stop la domenica. Sappiamo però che nella grande distribuzione il personale è insufficiente e sono lontani i tempi in cui una cassiera col fazzolettone e la spilla ti accoglieva alla cassa dando un’ultima occhiata alle unghie pittate. Oggi, ragazzini usciti ieri dalla scuola si proiettano dalle scalette del reparto scatolame sui sedili girevoli delle casse, insensibili alle avances del vecchio porco di turno…
Anche dalle mie parti i supermarket sono aperti la domenica. Mi è capitato di entrarci e non vi ho rinvenuto che un nugolo di anziani al reparto ortofrutta. Segno che le diete salutistiche funzionano.
giovedì 6 settembre 2018
Andrà meglio?

giovedì 23 agosto 2018
La mite di Fëdor Dostoevskij

Il
titolo innanzitutto. Krotkaja, ci
ricorda Vitale, è il nominativo singolare dell’aggettivo krotkij; un aggettivo che ha molte «sfumature di significato»: «dolce,
mansueto, mite, remissivo, pacifico, umile, paziente, rassegnato» (pp.
93-94). Seguendo gli esempi di molti traduttori, Vitale traduce il titolo con La mite.
Una
piccola ‘illazione’: leggo in una rivista («Quaderni di semantica», vol. 10, Il
Mulino, 1987) che krotkij «nei
dialetti del Vjatka significa ‘crudele’, ‘severo’». Solo uno slavista e un
conoscitore di Dostoevskij saprebbe dirci se nel racconto krotkij ha (anche) questa sfumatura di significato; e d’altra parte
l’avesse avuta Serena Vitale lo avrebbe segnalato nelle sue puntuali note.** Vorrei
però concludere il mio ragionamento tutto congetturale. La parola severità è utilizzata spesso dal
protagonista monologante del racconto, giacché questo protagonista una buona
dose di severità se la attribuisce e se la rimprovera; perché allora non
vedervela riflessa o irradiata anche dalla compagna, dalla giovane moglie, cui
l’autore non ha attribuito un nome segnalandone invece un tratto caratteriale:
la mitezza, la mansuetudine ecc.? Il lettore pare trovare una conferma a p. 37:
«Guardandola mi passa improvvisamente per
la testa che durante tutto quell’ultimo mese […] non aveva affatto mostrato il
suo solito carattere, ma addirittura, se così ci si può esprimere, un carattere
completamente opposto: si era rivelata una creatura violenta, aggressiva».
Ho
già accennato al processo (logos)
monologante. Michail Bachtin, proprio a proposito di La mite (Michail Bachtin, Dostoevskij,
Poetica e stilistica, Einaudi, Torino, 1968), introduce il concetto di ignoranza cosciente: «Il racconto […] è costruito direttamente sul
motivo della ignoranza cosciente. L’eroe nasconde a se stesso ed elimina
accuratamente dalla sua propria parola qualcosa che sta continuamente davanti
ai suoi occhi» e che alla fine scopre. Scopre o scoprirebbe. Si direbbe,
infatti, che egli fallisca l’accesso alla verità
di questo suo discorso così come fallisce l’accesso alla consistenza fenomenale
della salma della giovane sposa deposta sul tavolo. Questo cadavere, con il suo
non esserci più, fattiziamente (faktisch) direbbe Heidegger, suscita nel monologante una forma
di cura che non è lutto o sollecitudine, bensì un discorso discinetico, per
così dire, dove il diaframma della memoria interviene continuamente ma senza
delucidare troppo, giacché la verità, l’unica, almeno in apparenza, almeno per
il momento e fin quasi alla fine, giace sul tavolo o in un paio di scarpine
vuote. E quell’inizio («finché lei è qui
va ancora tutto bene» ‹p. 11›), preceduto da tre puntini di sospensione,
come del resto quella chiusa («No, sul
serio, che sarà di me quando domani la porteranno via» ‹p. 73›) appaiono
affatto perturbanti. Solo alla fine, p. 71: «Come è esile nella bara, come si è fatto aguzzo il suo nasino! Le
ciglia sembrano piccole frecce»; «[…] e
se fosse possibile non seppellirla?». Sono pensieri che erompono nella
‘confessione’ della verità.
Quella
del protagonista è una parola «profondamente dialogica», come scrive Bachtin,
che però allude all’uomo del sottosuolo (Michail Bachtin, Problemi dell’opera di Dostoevskij, in Michail Bachtin e il suo circolo: Opere 1919-1930, Bompiani, Milano, p. 1337). In qualche modo essa parola
interpella: è «allocuzione personale di
un uomo in carne e ossa» (p. 1339), è supplica, requisitoria, ricordo; è anche
anfibolia, un dire che non è mai definitivo (e che, si badi, rispecchia il
quotidiano dialogo-non-dialogo tra il marito e la moglie), un monologare
accessibile e inaccessibile, una sfida continua. Di tutto ciò, della ‘novità’
del procedimento, Dostoevskij è perfettamente consapevole; tant’è che sente il
bisogno di scrivere una prefazione dove, fra le altre cose, giustifica la
natura ‘fantastica’ del racconto.
Da
leggere – da leggere perché Robert Bresson ne trasse un film e Thomas Bernhard
ispirazione per A colpi d’Ascia, quando
il nome di Dostoevskij non dovesse parere ragione bastante.
* Fëdor Dostoevskij, La mite, Adelphi, Milano, 2018, pp. 103, 11,00 €.
** Mi
scrive lo slavista E.R., che ringrazio sentitamente: «È un caso di omonimia. Krotkij nell’accezione dialettale di
crudele deriva da un’altra parola che significa appunto crudele (in ceco ad es.
suona krutý), mentre il krotkij del russo standard viene da una
parola antico slava che attiene a un diverso campo semantico, nel quale rientra
appunto l’accezione evangelica».
Un De senectute declinato al femminile

Un De senectute declinato al femminile, un
saggio sulla senectus feminarum; e un
appello, rivolto alle donne vecchie, alle vecchie e ai vecchi, a non lasciarsi
andare – a difendersi. Ricco di riferimenti letterari, filosofici, al mito, il
libro di Francesca Rigotti – filosofa sessantasettenne, saggista – impiega un
approccio fenomenologico, sociologico e storico al suo tema premettendovi un
argomento tutto filosofico. La vecchiaia delle donne non differisce da quella
degli uomini che per ragioni culturali: nessun essenzialismo metafisico,
antropologico vi è ammesso. «La
ripartizione delle qualità umane – scrive l’autrice – secondo il sesso è una
questione culturale […] che poggia su pregiudizi e stereotipi» (p. 9). Sono
dunque i pregiudizi e gli stereotipi di genere, «vestigia di gender» (p.
10) – parola questa che abbonda nel discorso reazionario dove, com’è noto,
sottintende un giudizio negativo –, a riprovare l’anilità (e cioè la vecchiezza delle donne); a riprovarla fin dagli
esordi nella nostra cultura e in quelle che, fondanti, che ci hanno preceduti:
quella greca, quella semitica, quella romana. Il discorso sulla vecchiaia
femminile, afferma Rigotti, si è formulato abitualmente in una pletora di
villanie e irrisioni; e la donna vecchia è stata giudicata innanzitutto – e lo
è ancora – con un criterio estetico. E le categorie estetiche la riprovano: se
il vecchio è brutto, la vecchia lo è di più (cfr. il cap. 4).* È quello che
Susan Sontag, in un articolo del 1972, citato dall’autrice (p. 14), chiama «il doppio standard dell’invecchiare».
Accanto agli acciacchi, al venir meno delle forze, questo giudizio sul corpo
sfigurato, sessualmente sgradito. Con la parole di Sontag (che Rigotti non
cita): «Per la maggior parte delle donne
l’invecchiamento significa un umiliante processo di graduale squalificazione
sessuale [For most
women, aging means a humiliating process of gradual sexual disqualification]» (Sontag, The double stantard of aging, in «The Saturday
Review of The Society»,
23 settembre 1972, oggi consultabile al seguente URL:
http://inspiredwomeneveryday.blogspot.com/2013/03/susan-sontag-1933-2004.html).
E poiché, come sanno anche i bambini, le categorie estetiche sono suscettibili
di divenire specchio di quelle morali, ecco, accanto alla bruttezza, l’avidità,
l’ubriachezza, la lubricità che alla vecchia attribuisce Orazio – e cioè la
cultura romana (cfr. p. 59). Il vituperium
in vetulam (biasimo per la vecchia) è ovviamente contraddetto da un altro
discorso che, seguendo Theodore Roszak, Rigotti battezza (p. 29) «Ipotesi della
nonna» (‘ipotesi’ commentata anche da James Hillman in La forza del carattere, Adelphi, Milano, 2000). Secondo Roszak,
ricorda l’autrice (ibid.), la
menopausa avrebbe «un valore adattativo all’interno della biologia evolutiva»
dacché consente alle donne non più feconde di occuparsi di figli e nipoti.
L’ipotesi della nonna può sembrare stravagante. Rigotti non si perita di
definirla in buona sostanza pseudoscientifica e inquinata dal vecchio
pregiudizio che vuole «assegnare alle ave l’accudimento degli esseri umani» (p.
67), o il ruolo di levatrici come ai bei tempi di Socrate (cfr. p. 10). La
nonna, la nonnina, la balia, la maia
(levatrice), la fata (la fatina disneyana)… ecco gli stereotipi che si
oppongono alla strega, alla puttana, alla donna brutta e ovviamente vecchia.**
Mi dilungo
in questo resoconto sugli stereotipi di genere perché ci avviano senza meno a
un affondo ‘sociologico’ critico e cruciale. Il sin qui detto ci restituisce
l’immagine di una vecchiaia femminile condannata, più di quella maschile, alla
marginalità e alla invisibilità. Il che, se vogliamo, procede dalla esclusione
delle donne dalla storia ma pure dall’idea che la donna non abbia una storia,
che le donne siano «in fondo tutte la
donna, con i suoi innati caratteri di femminilità, sentimento, bellezza,
maternità» (p. 71), che non siano suscettibili di formazione, di
cambiamento, salvo quello traumatico della menopausa che le rende infeconde.
Oggetto di critica è qui, da parte di Rigotti (cfr. p. 71 e p. 103 e sgg.),
quel mito dell’eterno femminino o
dell’eterno femminile (non sto qui a
proporre distinzioni che pure esistono) che forse Simone de Beauvoir irrideva
sarcasticamente con la seguente domanda nella prima pagina del suo Le deuxième sexe: «La femminilità è una secrezione delle ovaie o sta congelata sullo
sfondo di un cielo platonico?» (Il
secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 1961, p. 13).
All’inizio
accennavo a un appello, parola che dovrei mettere fra virgolette. Quello di
Rigotti non è un manifesto politico; è invece un invito a difendersi dal
pregiudizio, ad alzare la voce, e un invito a progettare, a rimanere attive (e
attivi). Ma è anche qualcosa di più. In un vecchio articolo, comparso nel 1976
su «CoEvolution Quartely» (oggi in The
Meanings of Menopause. Historical, Medical, and Cultural Perspectives, a
cura di Ruth Formanek, The Analytic Press, 1990), Ursula Le Guin, la scrittrice
scomparsa quest’anno, immagina che dallo spazio giunga sulla terra un’astronave
per reclutare un passeggero con cui conversare amabilmente nel viaggio di
ritorno. «Quello che vorrei fare è andare
giù al locale di Woolworth, o al mercato del villaggio locale e scegliere una
donna anziana, sopra i sessant’anni… [What I would do is go down to the local Woolworth’s, or the local
village marketplace, and pick an old woman, over sixty, from behind the costume
jewelry counter or the betel-nut booth]». Certo, lei tentennerà, suggerirà
di spedirvi un giovane scienziato o il dottor Kissinger, e tuttavia bisognerà
spiegarle che «vogliamo farla partire
perché solo una persona che ha sperimentato, accettato e percorso l’intera
condizione umana – la cui qualità essenziale è il Cambiamento – può
rappresentare sufficientemente l’umanità [we want her to go because only a person who has experienced, accepted,
and acted the entire human condition – the essential quality of which is Change
– can fairly represent humanity]». Solo la donna sarebbe maestra del (nel) cambiamento?
Sarebbe un’ingenuità. Invece è – vorrebbe essere – la paradossale proposizione
di un femminile universale: «Universale perché parla della condizione
della vecchiaia delle donne ampliandola anche alla condizione della vecchiaia
degli uomini, e non viceversa» (p. 102).
Francesca
Rigotti, “De senectute”, Einaudi, Torino, 2018, pp. 111, 12,00 €.
* «Tirate le somme – afferma l’autrice, p.
64 – diventa quasi comprensibile
l’accanimento estetico di alcune donne su se stesse». Il giovanilismo da un
lato, le promesse della chirurgia estetica dall’altro…
** E
Michelet, che Rigotti non menziona, in un suo libro celebre, La strega, rimarca come ogni significato
stereotipo possa rovesciarsi nel suo opposto: «Il solo medico del popolo, per mille anni, fu la strega. […] la gente di ogni condizione, e si può dire
tutti, non consultava che la Saga o Saggia donna. Se non guariva, la
insultavano, la dicevano strega. Ma in genere, per rispetto e timore insieme,
la chiamano Buonadonna o Belladonna, dal nome che si dava alle fate» (Jules
Michelet, La strega, Bur, Milano,
1977).
venerdì 3 agosto 2018
Che ci racconta Paola Mastrocola nel suo ultimo articolo sul «Sole 24ore»?
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Immagine di Peter Gut |
Be’, intanto di un suo
personale disagio quando va al cinema, quando partecipa a una cena, confabula
coi vicini di casa. È il caso di tenerne conto? Più che mai, sembra suggerire
Paola Mastrocola, tutto considerato che ci sono «molte persone normali» e molti
«intellettuali» che quel disagio lo
provano. Ma di quale disagio parla Paola Mastrocola? Dirò intanto che è un
disagio molto simile a una certa scomodità. Si tratta di scarpe e, soprattutto
di abiti – forse troppo nuovi per calzare o cascare a pennello. In effetti si
tratta di «idee, appena nate e magari incerte e titubanti». E allora perché non
provarle, saggiarle, queste idee prima di esibirle nel beau monde o anche dal
fruttivendolo? Paola Mastrocola teme il giudizio e cita Amos Oz. Il quale, in
una intervista al Tg1 afferma che «i nemici non si amano» e che, nondimeno «si
deve dialogare, con i nemici». Ah questi arbitri del gusto! Ah questi arbitri
delle idee! Nessun dialogo è possibile con loro se «una scarpa alla moda su un
bel piedino non impedisce a un giornale di accettare le tue ‘cose’» (la frase
non è di Paola Mastrocola) – e se una brutta scarpa, insomma!... Insomma, se
gli arbitri sono così inflessibili, se i carabinieri... meglio passare… «se
proprio devo scegliere, io sto con i contadini, i panettieri, gli idraulici,
gli operai e gli imbianchini» (questa è proprio lei). E cioè con le loro idee.
Appena nate e titubanti? A questo Paola Mastrocola non ha pensato: non ha
pensato che sui tubi, sulle pitture, sulle farine, i succitati hanno idee
solide e, vorrei dire, ataviche; che le idee appena nate e titubanti
appartengono agli intellettuali, ai «ceti medi riflessivi», secondo
l’espressione di Ginsborg, agli scrittori, fra i quali si ascrive (ignorando
che ‘scrittore’ è talvolta – solo talvolta – un insulto). Dunque se parteggia
per i ceti irriflessivi non è perché questi solleverebbero con una mano i
blocchi per edificare… un muro? No, infatti, quello lo erigerebbero ancora e
sempre gli intellettuali i quali, bisogna ammetterlo, non hanno solo idee
appena nate e titubanti, faux-fuyants,
ma pure idee granitiche e autentici monumenti. Lo si sarà capito – non lo si
sarà capito affatto –: è il muro di un pensiero
critico che condanna la xenofobia a mettere a disagio Paola Mastrocola.
Eppure, prosegue Paola Mastrocola, eppure basterebbe un po’ di letteratura!
Già, ma gli idraulici, gli imbianchini…? Basterebbe per esempio citare il
Buzzati di Il reggimento parte all’alba
per capire che ci sono navi che partono: «Ecco, anche Buzzati parla di navi.
Bastimenti. Andar per mare. E morire. Ma così come ne parla lui, nessuno è
buono o cattivo. Scompaiono gli eserciti, le fazioni, i Giusti e gli Sbagliati,
gli Illuminati e i Bui. Di colpo, siamo su un altro piano, pacificato. Nulla di
più… egualitario». Un piano pacificato ed egualitario solo perché moriamo in
qualche modo, alla fine? Non è un po’ poco? Come se nel frattempo – nel
frattempo! – godersi un clima temperato o soffrire le temperature che
solitamente si vedono sul termometro clinico (la battuta non è mia) fossero la
medesima cosa!
lunedì 30 luglio 2018
Viaggio in Africa di Giorgio Manganelli
Siamo nel
1970 e Giorgio Manganelli si appresta ad abbandonare il suo status di scrittore sedentario, ad
assumere, almeno occasionalmente, quello di écrivain-voyageur: esistenza sociologica moderna che ricomprende
giornalisti in missione, esploratori (magari inclinanti alla difesa della
civilizzazione e degli interessi coloniali ecc.). Viola Papetti, che fu intima
nel Nostro, consegna a una sapida postfazione (in G. Manganelli, “Viaggio in Africa”, Adelphi, Milano, 2018) le sue osservazioni su quel
viaggio allotrio e, per certi versi, paradossale: lo volle tale Carlo Castaldi,
progettista, per la multinazionale Bonifica (una denominazione che pare
ironica), di una strada che avrebbe dovuto connettere Dar es Salaam al Cairo
chiamata Transafricana1 e che non venne mai realizzata. Castaldi immaginò una specie
di delegazione di studiosi, di cui Manganelli avrebbe dovuto costituire il
cervello, a sorreggere ‘ideologicamente’ l’impresa. (Ma la scelta dello
scrittore scaturiva anche dal responso che Silvana Radogna, moglie di Castaldi,
paziente eletta del dott. Ernst Benhard, donna amata da Bobi Bazlen, aveva
tratto dai tarocchi: ciò che, secondo Viola Papetti, irritò profondamente
Manganelli).
Escursionista
in erba, Manganelli scese al primo albergo africano (sempre Papetti) in
abbigliamento coloniale di maniera: completo kaki, cappello con visiera e
ombrello (cfr. p. 64). Una mise
ricercata a segnalare un ruolo incongruo? Ma la prima redazione della sua
relazione, quella pubblicata ora da Adelphi, annuncia subito una scelta di
campo: quella del testimone, dell’osservatore, del Kulturkritiker – ciò che obbliga il Nostro ad assumere una ‘posizione
globale’ («des positions
globales» diceva
Fanon nei suoi Damnés ‹p. 15 della tr. it.›*). Soprattutto la terra, sorvolata o
percorsa, colpisce il nostro osservatore. Intanto perché è davvero terra: terra
gialla, ocra, raramente verdeggiante: «L’Africa
appare morta – qualcosa che non è mai stato vivo […] Costole, ossame geologico:
montagne di ciottoli lavorate da un’acqua furibonda ed effimera» (p. 17).
E alla
sterminata crosta africana gli appare subito ovvio contrappore la città europea
che «tenacemente si stende a obliterare
ogni traccia di ‘terra’»: «arcaica
vergogna dell’Europa» (p. 12) la terra, se incolta, se scoperchiata.
L’Africa e la città: dure realtà inconciliabili, giacché la seconda partecipa
del tempo storico o cronologico e si progetta, si ‘futurizza’ (skopós vs télos, se col secondo
indichiamo il tempo ciclico, ‘naturale’). Il tempo e la città; il tempo e la civiltà:
non è un caso che l’Africa appaia a Manganelli fuori della storia, astorica o
preistorica: «L’europeo, unico animale
antico e moderno, celebra la propria dignità nello splendore dei ruderi […] Si
adorna di colossei, templi, acropoli»; invece «i simboli della dignità africana [subsahariana] sono senza tempo, ma
intensamente araldici» (p. 34);** sono gli animali anzitutto.

Solo
ridicola (gli) appare invece la ‘frode’ (tra virgolette) giocata al viaggiatore
europeo per il quale l’Africa è un immenso zoo, un parco, uno scenario
cinematografico, un regno favoloso e selvaggio, tenebroso, una Wilde Life da eternare con la macchina
fotografica. Mito infantile («Dall’infanzia,
una oscura memoria di esploratori… ‹p. 27›) che finisce sui dépliant degli operatori turistici,
sulle riviste di viaggi, al Cinema.**** Manganelli immagina di dischiudere il
senso di colpa del viaggiatore bianco, europeo e americano: «Ma si ricorderà di se stesso in mezzo a
quella gente […] come una cosa estranea, un errore, una prepotenza» (p.
29); un becero turista itinerante motorizzato, soccorso da un involucro di
latta; l’unico essere umano in movimento in un paesaggio quasi immoto, nel
tragitto da un albergo a un altro albergo. Un mordente sarcasmo, quello
manganelliano, che conclude o si fa conclusivo sull’ordinata realtà della
strada di cui, non lo si dimentichi, dovrebbe plàudere l’utilità, l’efficienza;
e invece: «La strada, sebbene non
percorribile, off-limits, per il
negro è pur sempre un bizzarro luogo longilineo»; certo anche un luogo
curioso e non del tutto superfluo; e tuttavia la strada congiunge i lontani e
non i vicini. Al passo fiaccabile dell’uomo su quel continente «accidentalmente umano» si confà di più
la pista sinuosa, effimera, esposta al rischio di essere raschiata dalle
piogge. La ‘viabilità’ africana non è costruita – è delicatamente «tatuata» (p. 15).
L’indigenza
dell’africano, l’indigenza prodotta dal sistema, dalla condizione coloniale, è
la causa della sua immobilità, della sua inerzia; immobilità e inerzia che
divengono un ‘problema’, in un continente intransitabile, solo quando la
colonizzazione impone il movimento: il movimento degli uomini e delle merci, la
ferrovia, la strada, l’aeroporto, la città metropolitana. I figli
dell’africano, vaticina Manganelli, «cresceranno
con la cognizione naturale che muoversi è possibile ma che ciò è loro negato
per sempre» (p. 36). È una previsione azzeccata solo a metà.
Perché
allora Manganelli parla di speranza? Speranza grottesca, certo, ma anche una «proposta» e un «regalo» (dell’Occidente?) – un regalo «ambiguo, euforico e rischioso» consegnato a una vita sfregiata,
ferita anche solo simbolicamente dalla tecnica, dal contatto con la tecnica
occidentale (cfr. p. 37). E allora il secondo vaticinio manganelliano è
azzeccato: «La disperata speranza
africana può essere placata solo da una impetuosa aggressione di futuro»
(p. 40).
(Questa recensione è apparsa in Cabaret Bisanzio ed è reperibile al seguente link: http://www.cabaretbisanzio.tk/2018/07/18/viaggio-in-africa-giorgio-manganelli/
Note
* Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1962.
** Con l’eccezione, annota, della «regione che va dal lago Tana ad Axum e Lalibela [che] racchiude i resti di diverse civiltà» (p. 50).
*** Più avanti, p. 39: «Si rammentano gli innumerevoli lustrascarpe in una terra senza scarpe».
**** E così, «La ‘bellezza’ dell’Africa è stata inventata ed elaborata da bianchi; in tal modo si è conservata e protetta l’annessione culturale dell’Africa» (p. 32). Fanon va oltre: «Toutes les valeurs méditerranéennes, triomphe de la personne humaine, de la clarté et du Beau, deviennent des bibelots sans vie et sans couleur. Tous ces discours apparaissent comme des assemblages de mots morts. Ces valeurs qui semblaient ennoblir l’âme se révèlent inutilisables parce qu’elles ne concernent pas le combat concret dans lequel le peuple s’est engagé» (pp. 12-13 della tr. it).
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