Quando, il 4
ottobre 1982, scompare improvvisamente stroncato da un ictus, Glenn Gould è già
una mezza leggenda. Sulle scene del mondo concertistico non si esibisce dal
1964, ma il vasto pubblico dei discofili, degli amanti del microsolco, del
fonografo, corre ad acquistare i suoi dischi. Inoltre è seguito alla radio e in
televisione per le quali confeziona originali e talvolta originalissime
trasmissioni; e letto su riviste come Saturday Night, Saturday Review, Globe and Mail, Star, New York Time, High Fidelity ecc.
(traggo l’elenco da K. Bazzana, Mirabilmente
singolare, E/o, Roma, 2004, p. 306).
Intellettuale
colto e raffinato ci teneva ad apparirlo e, benché forse peccasse un poco di
presunzione, le sue idee brillanti, le sue intuizioni ecc. non meritano il
sussiego di taluni critici accademici e non accademici. La sua biblioteca
comprendeva un numero ragguardevole di volumi. Leggeva e apprezzava Maritain,
Jean Le Moyne, Teilhard de Chardin, Nietzsche, Schopenhauer, Kierkegaard, McLuhan
(che fu anche suo vicino di casa), Thomas Mann, Thoreau, Gibran e,
naturalmente, la Bibbia e, naturalmente, George Santayana (l’autore de L’ultimo puritano), il Soseki di The Three-Cornered World.
Naturalmente vi
sono delle eccezioni, Brendel per esempio, ma di rado accade che i concertisti
leggano. Ancora più di rado accade che s’impanchino ammannendo tesi
musicologiche irritanti. E questo è il caso di Glenn Gould. Quando non gli è
stato perdonato, questo ‘vizio’ è sovente diventato l’appiglio per motivare e svilire
le sue interpretazioni eterodosse al pianoforte. (Più spesso le sue idee gli
sono state perdonate perché suonava magnificamente). Insomma, per quei taluni di
cui sopra avrebbe fatto meglio a non leggere perché, non leggendo, sarebbe forse
rimasto l’animale da palcoscenico che in realtà non fu mai.
Il ‘vizio della
lettura’ non conduce sempre alla virtù. Paradossalmente è un’affermazione che
Gould sottoscriverebbe. Ma non per disamore del dilettantismo e dell’approssimazione,
non per amore di casta o per amore di obiettività (la serena obiettività della
critica), ma per ragioni etico-morali che vanno chiarite.
Robert Walser
dice che «le cose dello spirito non sono mai così innocenti come ad esempio
mangiare cioccolato o assaggiare una torta di mele» (Ritratti di scrittori, Milano, Adelphi, 2004, p. 84). Parla dei
libri, dal momento che – nessuno lo ignora – lo spirito si trova lì e da
qualche altra parte (nell’arte), sempre significato da qualche significante.
Sempre incarnato dunque e sempre in
ispirito (appunto) e mai, di per sé, in carne e ossa … Facile concordare
con Walser: lo spirito, e cioè a dire i libri per esempio, lo spirito non è mai
così innocente. E, infatti, c’è quella signorina di cui racconta che, leggendo
Keller, diviene troppo esigente con la vita che non le riserva la bella
finzione dei racconti dello scrittore svizzero (anche Keller era svizzero).
Ecco come i libri, rimescolando la realtà con la finzione nella testa delle
signorine, possono essere colpevoli, non innocenti…
Far perdere l’innocenza?
C’è un gusto per l’understatement in Walser: non fatichiamo a immaginare
altre signorine alle prese con altri autori. Per questa ragione, ci dice
Walser, i libri (l’arte in generale) sono (anche) innocenti: «Il peggior libro
non è dannoso quanto la totale indifferenza, quella di chi non prende mai un
libro in mano» (p. 84), inoltre: «Chi legge è lungi dall’architettare piani
malvagi» (p. 83). Il libro, la lettura, gli ascolti musicali ecc. sono cavezze,
sono sedativi.
Nessuno oggi,
tranne forse qualcuno, Glenn Gould per esempio, amabilmente provocatorio,
direbbe che la lettura e la musica e la pittura corrompono. All’epoca di Walser
le cose stavano diversamente. Ernest Hello, per esempio, sostiene che l’arte
corrompe perché ha corrotto l’immaginazione, perché ha detto «che il male era
bello» (L’uomo, Lanciano, Carabba,
2008, p. 26). L’arte deve guarire e deve guarire l’immaginazione dicendo che il
bene è il bello e il male è il brutto. Basta dunque con una letteratura che
celebra l’apoteosi dell’adulterio, il suicidio, il delitto ecc. (Già non ammoniva
Nietzsche, af. 240 di Aurora, sull’innocuità
di questa morale – la morale del palcoscenico?). L’arte deve preparare «l’armonia che non è
ancor fatta, presentandocene l’immagine in uno specchio» (p. 28); l’arte deve rappresentare
la «la serenità, il riposo la conquista compiuta» (p. 29).
Gould – veniamo
a Gould –affronta il nodo (inaspettatamente complicato?) della questione in una
stimolante autointervista. Il lettore la troverà nella raccolta adelphiana
intitolata (infelicemente) L’ala del
turbine intelligente (Milano, Adelphi, 1988). Punto primo, vi è (o vi
sarebbe) una modalità di fruizione puramente e superficialmente estetica
dell’arte (è l’estetismo) e, per ovvia conseguenza, un fruitore puramente e
superficialmente ‘estetico’ della medesima (l’edonista). Il critico, con tutto
il suo outillage intellettualistico, ne è l’esemplare più
dotato. Punto secondo, contro questa modalità di fruizione, contro il fruitore
che dà solo giudizi estetici, possiamo far valere una modalità di fruizione
etica (dell’arte) e immaginare un fruitore ‘etico’ della medesima. Vi è qui, lo
noto di passaggio, una convergenza con certe ‘requisitorie’ nietzschiane.
Per spiegare
questo secondo atteggiamento, Gould racconta un aneddoto. Parecchi anni prima
si trovava a Berlino quando von Karajan diresse la Filarmonica in un’esecuzione
della Quinta di Sibelius. Detestando
le sale da concerto, Gould assistette all’esecuzione dalla cabina di
trasmissione, isolato dalle vetrate: posizione privilegiata, che gli permetteva
di vedere i gesti di Karajan e l’orchestra. «Da ciò è nata – dichiara Gould –
una delle esperienze musicodrammatiche più memorabili della mia vita». Quell’esperienza,
prosegue, gli era parsa memorabile «perché, pur rendendomi conto di assistere a
un evento ricco di intensa suggestione, non sapevo affatto se l’interpretazione
fosse o non fosse ‘bella’» (p. 24). E dunque? Dunque se non proprio la
sospensione di ogni giudizio estetico, ciò che «denoterebbe un livello di
perfezione spirituale cui non sono ancora pervenuto», qualcosa come l’osservazione
che «la mentalità critica mette fatalmente a repentaglio lo stato di grazia».
C’è un’altra osservazione degna di nota che Gould espone ed è la seguente:
«Ogni ascoltatore ha un ‘fine specifico’ che consiste semplicemente
nell’armonizzare la propria esperienza musicale con la vita che conduce» (p.
23).
Le parole di
Gould, cui non difetta una buona dose di ironia e di leggera reticenza, vanno
interpretate. Io sottolineerei due o tre punti. In primo luogo sottolineerei l’isolamento di quella esperienza
d’ascolto berlinese. Ogni lettore (ogni ascoltatore) gouldiano sa quanto egli
apprezzi e valorizzi l’isolamento e la solitudine. Di questo suo interesse è
prova una parte della sua produzione radiofonica documentaristica, senz’altro
la più sperimentale (Gould la definisce contrappuntistica per l’utilizzo di più
voci monologanti sovrapposte). Mi riferisco naturalmente alla cosiddetta Solitude Trilogy (composta da The Idea of North, The Latecomers e The Quiet in
the Land) interamente dedicata alle situazioni di isolamento (basi artiche,
outports in Terranova, enclaves
mennonite). (Non sarà un caso, anche questo lo dico in margine, se nell’ultima
parte di The Idea of North compare
l’ultimo movimento della quinta sibeliana diretta da Karajan).
In secondo luogo evidenzierei quell’idea di interrelazione
tra musica e vissuto. Ne sanno qualcosa quelle che Wilhelm Dilthey definisce le
anime musicali. Nessuna «duplicità di vissuto e musica, nessun doppio mondo,
nessun trasferimento dall’uno all’altro» (La
comprensione musicale, in Etica e poetica, Milano, Franco Angeli,
2005, p. 301). Piuttosto un sentire musicale, uno stato d’animo che emerge
dalle profondità per farsi e concentrarsi nel decorso temporale, nel movimento,
nel ritmo, nella melodia, nell’armonia. «Ciò che agisce psicologicamente
nell’artista può essere un passaggio dalla musica al vissuto o da questo alla
musica, o ambedue alternamente, e ciò che nell’anima sta alla base di tutto non
ha affatto bisogno di essere, anzi, per lo più non potrà essere, di per sé,
vissuto dall’artista» (p. 302). Proprio in ragione di ciò, proprio perché quella
profondità emotiva impersonale può essere letta nell’opera (cfr. ibid.), proprio per questo è possibile
una connessione, un accordo, un armonizzarsi (nel senso gouldiano) della musica
con il vissuto o con la vita che in quel momento conduciamo.
L’ultimo dei
puritani, dal titolo di un noto libro di George Santayana, c’est moi
aveva detto Gould nella menzionata autointervista (L’ala del turbine intelligente, cit., p. 30); aveva pure aggiunto
di non trovare poi così spaventoso il mondo di Orwell e che in Occidente di
queste cose non si capisce nulla perché solo le culture che «grazie al caso o
al buon governo» hanno saltato la «fase rinascimentale» sanno che l’arte
rappresenta un pericolo. Possono apparire, queste di Gould, proposizioni
eccentriche e provocatorie, e in parte lo sono, ma non se ne può negare la «cupa
coerenza» (come la definisce lo stesso Gould). La polemica antiestetica trova
qui un argomento. In breve: la
malattia occidentale, e cioè la convinzione «che sia perfettamente possibile
scindere la parola dall’azione» (p. 27), rende superflua l’arte (è l’estetismo)
e ne occulta la potenziale pericolosità sociale. Gould non si tira indietro e
ne trae le estreme conseguenze: «Secondo me si dovrebbe permettere all’arte di
potersi liberamente estinguere a poco a poco. Dobbiamo accettare l’idea che
l’arte non è necessariamente positiva, e che è anzi potenzialmente dannosa» (p.
29).
La tesi
gouldiana – che rappresenta comunque una sfida interessante – restituisce
davvero il Gould-pensiero? Segnalo solo che parecchi anni prima, in uno scritto
dedicato alla musica nell’Unione Sovietica, Gould aveva espresso una tesi
diametralmente opposta. Citando una frase di Jacques Maritain sull’opportunità
di un’arte «non impegnata», puntualizzava: «L’arte […] può svolgere il proprio
compito (e quindi, in certi casi, non svolgerne alcuno) soltanto quando le si
consente di rimanere del tutto staccata dai concetti etici di bene e di male su
cui si basa il governo della comunità» (p. 289). L’antiestetismo e l’antiedonismo
vanno collocati su altre basi. Credo che essi affondino le radici in un terreno
mistico o misticheggiante.
Se ora dico, con
Michel Schneider, che Gould «aveva una concezione più mistica che puritana
della musica» (Glenn Gould. Piano solo,
Torino, Einaudi, 1991, p. 111), mi si capirà senz’altro? Mi sembra, è il terzo punto che intendevo sottolineare, che
espressioni come «stato di grazia» e «perfezione spirituale» siano rivelatrici.
La solitudine e il beneficio dell’anonimato invocati da Gould per l’artista,
l’intimità auspicata dell’ascolto musicale, la commistione di esecutore,
compositore e ascoltatore-fruitore, complice la trasmissione elettronica del
suono, insomma, l’emergere di una inedita ma, alla sua maniera,
prerinascimentale, struttura socioartistica nell’età elettronica, con
quell’affondamento di quelle categorie di originalità, dei pregiudizi di
progressività, dei pregiudizi sociocronologici (cfr. il bel saggio intitolato ‘Strauss
e il futuro elettronico’ in L’ala del
turbine intelligente, cit. pp. 170 e ss.) – tutto questo, in Gould, avvicina
la musica a una forma di meditazione.
Il già
richiamato Michel Schneider, nel suo libretto dedicato a Glenn Gould, sembra
suffragare l’idea. Schneider, infatti, per spiegare l’approccio gouldiano alla
musica, chiama in causa, a un certo punto, la concezione della meditazione di
Ugo di San Vittore. Tuttavia, bisogna pur dirlo, il modello della meditazione
vittorina, applicato a Glenn Gould, resta una suggestione del tutto esteriore. Credo
invece che gli scritti e le dichiarazioni di Gould contengano sufficienti
indizi e riscontri a conferma dell’ipotesi. Nella sua breve introduzione alla
raccolta adelphiana degli scritti di Gould, il bravo Mario Bortolotto ricorda
una dichiarazione del pianista (che purtroppo pesca da fonti non comprese nella
raccolta). Gould torna sul tema a lui caro della tecnologia e della tecnica
moderne. Ecco il passaggio (p. xx): «La tecnologia non dovrebbe […] esser
trattata come qualcosa di neutro, come una sorta di voyeur passivo; le sue capacità di scorticamento, d’analisi e forse
soprattutto d’idealizzare un’espressione data devono essere sfruttate […] Ho
fede nell’ ‘intrusione’ della tecnologia giacché, per essenza, essa intrusione
impone all’arte una dimensione morale che trascende l’idea d’arte stessa».
Tacendo le assonanze heideggeriane (p. e. l’idea di una tecnica non neutra),
concentrerei l’attenzione sulla «dimensione morale» che l’intrusione della
tecnologia è suscettibile, per essenza, di produrre. Qui la preoccupazione
etica non concerne la società ma la struttura socioartistica, l’artista e
l’arte tout court invitata a
trascendersi. Si comprendono così certe ‘tirate’ gouldiane contro la forma del
concerto solista, contro l’esibizione pubblica e contro lo spirito di competizione
(«Secondo me – scrive colloquiando con Bruno Monsaingeon su Mozart, p. 84 della
raccolta adelphiana – la radice di ogni male non è tanto il denaro quanto lo
spirito competitivo»).
Ma la
dichiarazione più illuminante Gould ce la regala proprio parlando di Mozart. È
nota l’antipatia di Gould per Mozart, per il suo decorativismo, per la sua
leggerezza e spontaneità (non discuto qui sul fatto che si tratti di pregiudizi!).
Ebbene, nel succitato colloquio, il nostro musicologo chiama in causa il
teologo quebechiano Jean Le Moyne che, parimenti, nutriva una tenace diffidenza
per Mozart. (Si renderà necessario un giorno esplicitare le influenze, di sul
pensiero di Glenn Gould, sulla sua riflessione attorno alla tecnologia. Segnalo
qui un articolo apparso sul web: http://cec.sonus.ca/econtact/7_3/mcfarlane_visionaries.html).
Nel suo saggio mozartiano, ricorda Gould, Le Moyne chiarisce che la sua
diffidenza per Mozart scaturisce dalla pretesa di autosufficienza di alcune
forme d’arte. L’artista, invece, dovrebbe sforzarsi di comprendere il mondo e
bisogna esigere da lui «la concentrazione, la fretta e l’ansia di
miglioramento» (p. 86) osservabile nella vita dei mistici. Eccolo qui il
paragone con la meditazione e, se vogliamo, con il percorso di ascensione (con
l’ascesi) dei mistici.
Non possiamo
dubitare del fatto che Gould facesse suo questo invito e che pensasse di avere
raggiunto un qualche traguardo. Ancora un paio di citazioni. Questa: «Mi
piacerebbe che esistesse, soprattutto da qualche anno a questa parte, una sorta
di pace autunnale in ciò che faccio, in modo che buona parte della musica
diventi un’esperienza tranquillizzante […] Sarebbe meraviglioso se ciò che
realizziamo sotto forma di registrazione contenesse la possibilità di un certo
livello di perfezione di un ordine non soltanto tecnico ma anche e soprattutto
spirituale» (cit. in No, non sono un
eccentrico, Torino, Edt, 1989, p. 157). E la seguente, risalente al 1962:
«Lo scopo dell’arte non è una momentanea iniezione di adrenalina, ma piuttosto
la costruzione graduale di uno stato di meraviglia e di serenità che attraversa
tutta la vita» (cit. in Mirabilmente
Singolare, p. 380). Asceta dell’era McLuhan o monaco buddhista zen, come lo
immaginava Kobo Abé? Preferiva il complesso al semplice, dice Kevin Bazzana, e
questa sola affermazione vale come obiezione…