Schopenhauer non è uno scettico. Lo
scetticismo lo liquida alla prima occasione, nel secondo libro, congiungendolo
all’egoismo teoretico – il solipsismo con cui avrà a che fare anche
Husserl – per meglio liquidare entrambi. Ma l’erba cattiva dello scetticismo
attecchisce anche tra le pietre degli edifici meglio costruiti...
Forse proprio perché Schopenhauer non è
uno scettico, forse proprio perché lo scetticismo lo ha liquidato con una
battuta, con poche frasi soltanto:
L’egoismo teorico non si potrà mai confutare con
argomenti.
Quindi:
Come convinzione seria non potrebbe incontrarsi
che in manicomio, e allora per confutarlo occorrono non tanto argomenti quanto
piuttosto una cura. Non ne terremo dunque più conto e ci limiteremo a
considerarlo come l’ultima trincea dello scetticismo che per sua natura è
sempre polemico.[1]
Dicevo, forse proprio perché lo ha
liquidato così, Schopenhauer è ad un tempo vulnerabile e coraggioso... Schopenhauer prende la parola proprio quando il dubbio
attorno alla possibilità di veritates
aeternae non è più eludibile. La sua polemica con Hegel è sintomatica di
tutto ciò. Perché, viceversa, vedervi un tradimento di Kant? Non è un caso che
Hegel sia l’ultimo filosofo felice. Hegel ha costruito un sistema, in cui ideale e reale si riconciliano sempre. A Hegel lo scetticismo fa un baffo. A
Schopenhauer no. Schopenhauer sa benissimo che lo scetticismo che lo tenta non
è affatto lo scetticismo degli antichi e dei moderni; sa benissimo che lo
scetticismo che lo tenta è il nichilismo:
Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono
ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della
volontà di vivere è il vero e assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui
la volontà si è convertita e soppressa, è proprio questo mondo così reale, con
tutti i suoi soli e le sue vie lattee, ad essere nulla (M., p. 576).
Se fosse mero pessimismo filosofico, una
forma radicale di scetticismo, uno scetticismo a pieghe di piombo, sarebbe poca
cosa; ma il Nihil cui pone capo la
sua dottrina è ontologico. L’apofatismo che contraddistingue la sua voluntas e la contraddizione che ne
segue, contraddizione con il cui il suo pensiero vigoroso, radicale, coabita,
giacché della voluntas egli intende parlare – e ne intende parlare
attraverso i concetti di ragione –, di quel Nihil
non sono che le premesse... Schopenhauer ha sperimentato, da autentico pioniere,
la via del nulla che sarà di Nietzsche e di Heidegger.
Il
nichilista nega ciò (essere o senso dell’essere, essere del senso, valore...)
che già non c’è; non opera dunque una detrazione d’essere ma una ‘agnizione’ –
il nichilista è un diagnosta. Egli riconosce, per esempio, il non-essere del
Dio cristiano, o dello Spirito assoluto hegeliano. Riconoscerà dunque anche il
non-essere del Wille? È Schopenhauer un
«filosofo dell’assurdo» (si domanda Casarotti)? Infatti, egli «mostra nel Nihil conclusivo del sistema la
contraddittorietà di una filosofia che intende [fornire] per absurdum una verità che non può pronunciare per via diretta. In
questo senso, prima di Nietzsche [....] egli è quel ‘nichilista compiuto’ che
nella sua opera fornisce una diagnosi impietosa delle proprie radici
nichiliste».[2]
Del
Wille, il nostro nichilista
riconoscerà la gratuità – e ciò a dire l’inesistenza di un suo senso; e ciò a
dire la sua non rappresentabilità. E poiché la metafisica vuole spiegare
(rappresentarsi) l’esperienza nella sua totalità
una volta per tutte (nel suo essere o essenza o senso o valore) (cfr. M., p. 969), il Wille sarà, a un tempo, il proprio nulla di senso e il senso di
questo nulla. Se è pur vero che il Wille
(la cosa in sé) è «accessibile» all’uomo «nell’autocoscienza» (M., p. 970), e vero anche che esso è
accessibile – venendo a mancare un resto dal calcolo operato dall’intelletto
umano sui fenomeni, sull’esperienza nella sua totalità (a riprova del fatto
che il nichilista non detrae nulla né alla creatura né al Creatore) ... – che
esso è accessibile, dicevo, come inafferrabile e impensabile «enigma del mondo»
(M., p. 973).
Il punto di partenza di ogni filosofare
autentico è la meraviglia:
Infatti gli uomini, sia nel nostro tempo, sia
dapprincipio, hanno preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare [Aristotele,
Metafisica, libro I, citato a p. 939
del M.].
Pensare – nulla lo vieta – che la meraviglia del filosofo sia un po’ come
la furfanteria delle Istruzioni ai
domestici di Jonathan Swift – una consuetudine legata al mestiere –
significherebbe banalizzare non poco il più filosofico dei sentimenti. Né la
meraviglia dei filosofi è un ‘oh!’
bonaccione sfuggito allo sprovveduto davanti a un gioco di prestigio. La
meraviglia dei filosofi si rapprende tutta in una domanda: perché l’essere e
non il nulla?
Infatti l’inquietudine, capace di tenere in
funzione il mai scarico orologio della metafisica, è la coscienza che la
non-esistenza di questo mondo è altrettanto possibile, quanto la sua esistenza
(M., p. 954).
Chi non si pone la domanda ontologica,
chi non conosce la meraviglia filosofica non ha accesso alla filosofia. L’alternativa
è secca: o si è, o no si è soggetti della
domanda – soggetti alla domanda.
Ma se l’alternativa è secca, altrettanto
non si può dire dell’atteggiamento degli uomini rispetto alla domanda. Fermo
restando che «ad eccezione dell’uomo, nessun essere si meraviglia della propria
esistenza» (M. p. 938), tutto sta
nella qualità precipua di questa
stessa meraviglia:
Quanto più in basso si trova il punto di vista
intellettuale, tanto meno misteriosa è per lui la sua esistenza: anzi gli
sembra ovvio che tutto quello che esiste, esista ed esista così com’è (M., p. 939).
Tutto sta, cioè, nella perspicuità dell’uomo, di quell’uomo che
anche al più basso punto di vista intellettuale resta animal metaphysicum. Questo significa che di fronte alla meraviglia
che lo coglie, per così dire alla sprovvista, di fronte alla meraviglia di
esistere, e di esistere così e non cosà, la domanda ontologica non è
immediatamente disponibile in tutta la sua purezza, bensì è confusa e dirottata
(privata, sconfitta) da risposte parziali
e consolatorie.
Parziali sono le risposte
che ignorano la totalità (senso della
vita e del mondo): sono le spiegazioni dell’etiologia, le spiegazioni fisiche,
le spiegazioni dei «ficcanaso della natura» (M. p. 963), di «coloro che credono che crogioli e alambicchi
costituiscano la vera e unica fonte di ogni sapienza» (ibid.).
Consolatorie sono le
metafisiche popolari, le grandi religioni, monoteistiche e atee (il buddismo);
esse disinnescano la domanda ontologica promettendo la sopravvivenza, la
salvezza, l’assorbimento nel Brahman,
eccetera.
(Nella loro forma più prestigiosa – la
scienza medica – le spiegazioni parziali tradiscono la radice comune con la
metafisica in generale: sostituiscono alla salvezza la salute. E con le metafisiche popolari, con le religioni storiche, l’etiologia,
costituiscono uno storno in grande stile dalla filosofia).
È evidente che la purezza della domanda
metafisica fondamentale racchiude in sé la cognizione del dolore e,
soprattutto, della morte:
Se la nostra vita fosse senza fine e senza
dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi, perché il mondo esista
e perché sia fatto proprio così, ma tutto sarebbe ovvio (M. p. 939).
Ma sarebbe un errore credere che questa
cognizione vi si aggiunga, vi si giustapponga come un che di psicologico, di antropologico, “di umano, troppo umano”; o,
peggio, che essa cognizione preceda, in qualità di movente neanche tanto
segreto, la nostra domanda. Sarebbe facile, aggiungo, accusare Schopenhauer di esorcizzare la morte con la mistica, l’ascesi,
la rassegnazione tout court; ma per
quanto caldeggi quelle difficili vie, e per quanto sia (forse) ben più
rassegnato dell’uomo del Qohélet, che invita con un tranello scandaloso a
mangiare, bere e godere, Schopenhauer è consapevole che l’essere-alla-morte
dell’uomo (per dirla con Heidegger)
è tratto ontologico-esistenziale:
La sua meraviglia è tanto più profonda, in
quanto qui, per la prima volta, essa si trova coscientemente di fronte alla
morte e in quanto, accanto alla consapevolezza della finitudine di ogni
esistenza, le si impone anche, con più o meno forza, quella della vanità di
ogni aspirazione (M., p. 938).
Vanitas
vanitatum!
Ma, lo ripeto, tenere presente che la morte è nelle cose, nella natura di
quella ‘cosa’ che è l’uomo, non significa affatto vivere con angosciosa
oppressione, con un motivo di assidua e intollerabile preoccupazione, vivere,
per così dire, in anticipo il fatale evento, ovvero non significa esorcizzarlo
e scongiurarlo con false e facili consolazioni, ovvero non significa
ridimensionarlo, ridurlo di proporzioni, secondo un’ottica stoico-epicurea,
ovvero negarlo come certe derive scettiche (neanche la morte sarebbe assicurata!).
Tenere presente che la morte è nella natura delle cose significa ammettere lo
scacco della nostra esistenza e ridimensionare, questo sì, tutte le altre
possibilità.
Io dico dunque che, se è vero che tutto è
spiegabile fisicamente, è anche vero che nulla lo è (M., p. 957).
Che cosa ha da dire la scienza rispetto
alla domanda ontologica fondamentale? Può porsi la scienza la domanda sul
senso? Peggio: è una domanda inutile?
Ma la domanda è viva in tutti. Schopenhauer
la chiama il bisogno metafisico dell’uomo.
Soltanto la filosofia è in grado di
articolare la domanda ontologica; e dato che di pretese totalizzanti non ne ha,[3]
trovandosi tuttavia di fronte ad una domanda sul senso totale del mondo, sul
senso dell’essere e dell’esistenza, sul senso della vita e della morte, non le
resterà dunque che sviluppare la domanda come
tale, per ammettere sì lo scacco della nostra esistenza, ma anche per
liberare il pensiero e farlo volare alto.
Pertanto con il naturalismo o con il metodo
puramente fisico, non otterremo mai il nostro scopo: tale metodo è un calcolo
che lascia sempre un resto (M., p.
962).
E più avanti:
Anzi, i più grandi progressi della fisica non
faranno altro che rendere sempre più sensibile il bisogno di una metafisica (M. p. 963).
La risposta al problema della scienza e
della tecnica moderne e racchiusa in queste poche parole. Schopenhauer non
vuole bloccare la scienza, la sua visione non è perniciosamente ‘antiscientifica’,
ma sa che se si vuole continuare a ragionare, contro chi crede «che sarebbe
ingiusto ed estremamente inopportuno consentire il trasporto di queste esigenze
[filosofiche] nel campo della conoscenza»,[4] l’unica soluzione è il
radicalismo filosofico: sempre più filosofia.
Note
[1] A. Schopenhauer, “Il mondo come
volontà e rappresentazione”, Milano, Mondadori, 2000, p. 168 (da qui in poi
citato direttamente nel testo come M.).
[2] G. Casarotti, “La scienza
dell’esperienza ne il mondo come volontà e rappresentazione”, in “Schopenhauer
ieri e oggi”, Genova, Il melangolo, 1991, p. 125.
[3] Ora, che la filosofia abbia coltivato
una pretesa totalizzante è fuori di dubbio, ma che a quella pretesa – ancora la
pretesa di Hegel – abbia rinunciato volentieri in concomitanza con il distacco
definitivo delle branche che riscotevano il maggior successo è un fatto che non
possiamo ignorare. Come non possiamo ignorare che «la boria della filosofia» – la sua hybris, la sua «pomposa follia», per
dirla con Thomas Mann (‘Schopenhauer’, in “Nobiltà dello spirito e altri saggi”,
Milano, Mondadori, 2001, p. 1236) – si è rovesciata in tanto scientismo.
[4] S. Freud, “Introduzione alla
psicoanalisi”, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 554.