In
molti, lo scorso sabato pomeriggio, al Family Day, avranno avvertito il tocco
di torpedine di Kiko Arguello. E quando ha parlato dei bambini assassinati da
Matthias Schepp, e cioè a dire dal padre, segnando a dito le donne che
abbandonano i mariti, il nervosismo è serpeggiato. Arguello non si è fermato;
con la chitarra sotto il braccio ha proseguito il suo intervento fiume, citando
Kierkegaard, cui deve almeno un paio di sapide espressioni (per esempio, se non
ricordo male: «Disperatamente non voler essere se stesso»; e anche: «Disperatamente voler essere se stesso»), il
pacioso Olivier Clément (di cui qualcuno giura di aver sentito le ossa
scricchiolare nel tentativo di raddrizzarsi nella fossa), il Vangelo, Paolo di
Tarso. Arguello è un sostenitore della letteralità della lettera; mentre citava
Efesini 6,12, il timore che intendesse ‘letteralmente’ scagliarsi, chitarra in
resta, contro il drago Arcobaleno s’è fatto palpabile.
venerdì 26 giugno 2015
giovedì 25 giugno 2015
Fusaro ideologo anti-gender
Su Diego Fusaro e
sul suo ultimo intervento sul ‘Fatto’, Paolo Ercolani ha già detto molto in un
articolo sul ‘Manifesto’; perciò corro il rischio di ripetere alcune delle sue
obiezioni. Nondimeno le sue opinioni sulla famiglia e su quella che, con una
buona dose di enfasi, definisce «la distruzione capitalistica della famiglia», mi
appaiono così sgradevoli da spingermi a dirne qualcosa.
Fusaro, questo il
mio parere, avrebbe potuto sostenere il contrario, esattamente il contrario, di
quello che sostiene: dire che il ddl Cirinnà estende la tutela delle
solidarietà erodendo, magari solo superficialmente, il continente del do ut des. Invece ha preferito dire che
ogni estensione dei diritti demolisce la comunità primaria o primeva della
famiglia e produce gli individui isolati, gli «atomi isolati incapaci di
parlare e di intendere altra lingua che non sia quella anglofona dell’economia
di mercato». È un argomento che non persuade, un argomento pernicioso, un
argomento contraddittorio. Ad essere buoni si potrebbe dire che Fusaro sia
vittima di un abbaglio. E tuttavia si fatica a comprendere le ragioni di questo
abbaglio.
Bertrand Russell,
in maniera piuttosto tranchant,
denunciava in Tommaso d’Aquino la carenza di un vero spirito filosofico: non
che l’Aquinate mancasse di intelligenza; piuttosto il dogma cattolico
determinava in anticipo la ‘direzione’ del suo pensiero (traggo queste
considerazioni di Russell da un interessante articolo sul The Guardian firmato da Nick Cohen). Anche Fusaro si è sottomesso a
un dogma? Duro fatica a credere che Fusaro creda nella famiglia tradizionale e «costituzionale»,
come proclama rubando il mestiere al giurista; che vi scorga qualcosa di
intatto e di universale, di completo (kath’holon).
Direi piuttosto
che ne fa un labaro, che parla e arringa da ideologo. Fusaro sceglie il ‘tema’ della famiglia alla stregua di un ticket nel senso di Horkheimer e Adorno. Con questa espressione i
due francofortesi segnalavano un mutamento del processo ideologico nel suo
rapporto con l’industria culturale. Poiché quest’ultima fa circolare
contenuti (informazioni) universalizzandoli, intersecando i processi ideologici
universalizzerà le idiosincrasie. Si dirà dunque: «gli ebrei sono dappertutto»,
oppure: «gli omosessuali sono dappertutto», ecc. (che altro è il ticket se non un repertorio di slogan?). La minaccia della cosiddetta
ideologia gender alla famiglia
tradizionale è un simile ticket
spendibile e remunerativo. Fusaro, e in questo ha perfettamente ragione
Ercolani, è il tipico intellettuale che si atteggia a rivoluzionario tacendo la
sua totale ‘organicità’ al sistema che pure finge di contestare.
Ma c’è di più o,
per meglio dire, bisogna dire di più. Smerciare le idiosincrasie non è
sufficiente; bisogna che questa ‘attività’ assuma, per dirla con il Gadda del
‘Pasticciaccio’, «le dimensioni e la gravezza di un’attività morale» quando, nei
fatti, non è che un’attività «pseudo-etica», un’attività «scenica e sporcamente
teatrata».
lunedì 22 giugno 2015
Eco e gli imbecilli
Umberto Eco ha definito imbecilli i
commentatori dei Social Network (e in particolare se l’è presa con quelli di
Twitter). Si è detto che ha commesso un errore di ‘comunicazione’ – il caso ha
voluto che commettesse un errore di comunicazione proprio mentre l’Università
di Torino gli conferiva una laurea honoris
causa in ‘Comunicazione e Culture dei Media’.
Eco può essere accusato del peccato di superbia. Ma non è quello che gli si è stato
rimproverato, almeno non di preferenza. Piuttosto lo si è accusato di accidia. L’accidia, a dire il vero, è un po’ il peccato
degli ‘intellettuali’. Ne sapeva qualcosa Petrarca e, prima di lui, Agostino,
che dice che l’intellettuale (quale anacronismo!) è tentato dal tedio «ita ut
aliquando eum nec legere nec orare delectet» (Enarrationes in psalmos, 106,6). L’uomo della strada – e cioè a
dire l’imbecille, ut supra dixi – ne
sa molto di meno, ma molto ‘indovina’. Un tic
adespota lo ha spinto spesso – e lo spinge tuttora – a screditare l’attività
dell’intellettuale, a rimproveragli il vagare con il pensiero e, soprattutto,
il piacere che ne trae – se l’intellettuale non fosse, talvolta, così gioioso,
giocoso, mondano, non susciterebbe tutta questa indignazione; e, tuttavia, l’accidia
è tristitia –; a celebrare il sudore
della fronte e, corollario non marginale, l’honestas
del lavoro manuale. Sorge il sospetto che non si tratti qui esattamente
dell’indignazione dell’homo faber, mi
si passi la battuta, ma, piuttosto, dell’indignazione dell’invidioso. Sarebbe il terzo peccato (vizio) capitale che tiro in
ballo in una mezza paginetta. Non è un caso che gli intellettuali abbiano
cercato di accreditarsi come professionisti, come servitori della società, come
missionari. Da Clemenceau (che coniò forse il neologismo intellectuel) a Weber, a Foucault (che s’inventa la
figura dell’intellettuale specifico) è sempre la stessa esigenza che si intende
far valere – quella di un ruolo attivo e produttivo dell’intellettuale nella
società.
Con una buona dose di enfasi, George
Steiner, autore di un agile e deludente libretto sulla tristezza del pensiero,
ci parla di un panico atavico, di una invidia subconscia che alimenterebbe la
«rivolta delle masse» e «la brutalità filistea dei media che hanno reso
derisoria la denominazione stessa di ‘intellettuale’» (Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Milano,
Rizzoli, 2007, p. 73). Steiner non ha commesso l’errore di Eco – che è poi, per
dirla ancora con Steiner, quello di aver «pensato a voce troppo alta» –; non lo
ha commesso perché queste idee non le ha espresse in una conferenza pubblica:
le ha serbate per sé e per quelli come lui consegnandole a un libro.
lunedì 15 giugno 2015
I luoghi comuni si vendicano

La
repulsione di fronte al luogo comune è ingenua. Ha ragione Derrida quando dice
che il luogo comune – l’idea reçue –
non è incompatibile con l’esigenza critica e antidogmatica della filosofia. In
fondo, prosegue Derrida, la filosofia non è che un’enciclopedia di idee
ricevute cui si torna e si ritorna con scopi esegetici. Non che non sia
presente, nella filosofia, un elemento poietico, ma ciò a cui si aspira,
creando nuove idee (concetti, direbbe Deleuze) sulla base delle vecchie, tradendo
la tradizione delle vecchie, è la forma
stabilita – il luogo comune, appunto, l’idea.
Non forme
di non-pensiero, ma forme di pensiero ricevuto, i luoghi comuni restano da
pensare e da ripensare. Certo, questo non avviene nella chiacchiera quotidiana,
dove la sorveglianza, lo spirito critico, esegetico, sonnecchia o è istupidito.
Il punto però è un altro.
Questo
aspetto dei luoghi comuni, visto così bene da Flaubert e da Léon Bloy, non è
nemmeno scorto dai curatori del volumetto menzionato all’inizio. Per loro il
luoghi comuni, quelli nuovi, nuovissimi della neolingua, dei nuovi media, sono
solo dei simulacri di realtà, dei significanti per significati che mancano, dei
concetti senza oggetto, senza riferimento, senza una qualche connessione con la
‘realtà’ nuda e cruda: degli specchietti per le allodole, slogan
propagandistici dei ‘padroni’ dei concetti, artefici del pensiero unico e
dominante. Scrive Lorenzo Vitelli, uno dei curatori: «Mentre i dialetti e le
particolarità linguistiche si annullano e la lingua diventa un processo
unidirezionale calato dall’alto – pensiamo a neologismi quali omofobia,
diritti umani, austerità, spread – il significato delle parole non
nasce più spontaneamente dalla comunità. Il processo di significazione interno
al lessico non è stabilito comunemente, ma è monopolio di qualcuno».
L’apologia
– come altro chiamarla? – dei dialetti, della saggezza popolare, dello spirito
comunitario, dovrebbe insospettirci. Intanto perché è, precisamente, un luogo
comune. In soldoni ci si suggerisce di non pensare in maniera troppo diversa dalla
‘tradizione’, di non esercitare troppo lo spirito critico e antidogmatico, di
accettare le ‘evidenze’, quelle evidenze che la neolingua dei nuovi padroni
pretenderebbe di mettere in discussione – la sana evidenza cui ci si richiama
come ci si è già richiamati alla realtà, o alla comunità spontaneamente
produttrice di logoi; l’evidenza di concetti
«quali ‘uomo’ e ‘donna’, ‘famiglia’ e ‘identità’, ‘guerra’ e ‘pace’». Non è
curioso che chi ci invita a diffidare dei luoghi comuni – delle idee reçues – finisca, quasi senza
accorgersene, per ammannirceli? I luoghi comuni si vendicano.
mercoledì 10 giugno 2015
Tout se tient

Leggo un ‘articolo’ di Nicoletta Polla Mattiot
(sul sito del Sole 24 Ore) che celebra lo «sguardo provocatoriamente innovativo»
(sic!) di Giacomo Rizzolati sul ruolo
dell’empatia nello sviluppo economico, produttivo e culturale. «Il successo di
un italiano – conciona Rizzolati (obbligatoriamente citato) – dà prestigio a
tutti. Ci dev’essere un senso di appartenenza, di orgoglio anziché di invidia
competitiva. Le tue conquiste, scientifiche, imprenditoriali, tecniche,
artistiche, sono le mie, perché migliorano anche la mia vita». E dunque? Dunque
è massimamente importante condividere le esperienze, il know how, gli obiettivi etici che sono anche economici.
Nicoletta Polla Mattiot, per dirla con George
Steiner, ama le simultaneità polifoniche del pensiero, dell’immaginazione
controfattuale. Infatti, a questo punto, ci parla di John Studzinski e di Francesca
von Habsburg. Studzinski è il vicepresidente del gruppo Blackstone e il presidente
della fondazione filantropica Genesis; ed è uno che non arrossisce asserendo
che «la musica è un veicolo potente e un segno che stiamo transitando da un’epoca
di materialismo a un’epoca di spiritualità». Si è fatto perciò promotore della «musica
rilassante», musica di cui «la gente ha sempre più bisogno» (sic!). Non meno degno di interesse
appare il mecenatismo ambientale dell’arciduchessa Francesca von Habsburg, impegnata
in un periplo attorno al mondo a bordo della sua imbarcazione, la Dardanella (immancabile
l’appuntamento con gli amici Maori attorno a un falò in un’isoletta qualsiasi
della Nuova Zelanda). Tout se tient,
appunto.
Tout se tient anche nel marketing,
perché alla fin fine si tratta di business
(«Non si tratta di solidarietà, ma di business»
dichiara Nicoletta Polla Mattiot con stupefacente candore). Si tratta di vendere
musica rilassante, mobili-albero, sedie-origami e tavoli-riunione-altalena («per
far girare le idee»). Il metodo negativo valorizza, per differenza, i nuovi
prodotti, l’empatia fa il resto.
martedì 9 giugno 2015
Tutti sono utili e nessuno è indispensabile

Iscriviti a:
Post (Atom)