Di Agostino Colombo e del
suo ricettario non serberemmo memoria se il Doni non lo avesse menzionato nella
sua Librarìa (recita il frontespizio
del 1550: La libraria del Doni Fiorentino
ecc. ecc.) – e cioè nella sua personale ‘bibliografia’. Già, ma chi era questo
Agostino Colombo che trova menzione nella libraria del Doni? Un veterinario
diremmo oggidì, un veterinario ippiatra per la precisione; un maniscalco o poco
di più nel secolo decimosesto. E perché lo cita? Perché suo progetto – del Doni
– è quello di dare «cognitione di tutti i libri stampati vulgari» nell’epoca
sua; e senza intenzione critica alcuna giacché si sentiva insufficiente a dar
giudizio delle buone e delle cattive opere; e neppure voleva farsi dei nemici
(come taluni critici di oggidì d’altra parte…). Sull’opera «da medicar cavalli»
di Agostino Colombo così scrive il Doni: «Non essendo io maniscalco, non vi
saprei dire se le ricette che gl’ha composte son buone, vere; o no. Però
anchora questi simil libri ci sono utili, non meno che bisognosi». Libri bisognosi e cioè a dire
soccorrevoli: che bella espressione! ― Volevo aggiungere qualcosa sulla commozione indotta
da questi ‘salvamenti’ di nomi e di vite – di esistenze – nelle menzioni
bibliografiche (o nelle cronache o nei rapporti o dove volete), ma scopro che
Agostino Colombo non era un Carneade, un Carneade qualunque; era invece,
Agostino Colombo di Sansevero, il medico delle stalle reali di Ferrante I di
Aragona, l’autore apprezzato di un De
medicina equorum. (Dovrei allora correggere il mio incipit ma non ne ho voglia). Queste notizie le ricavo da una
vetusta Storia della medicina in Italia di Salvatore de Renzi (stampata in Napoli nel 1845). Il mio compilatore
prosegue citando, assieme al Colombo, tale Clemente Gattola di Gaeta, che fu
protomedico del succitato Ferrante I di Aragona e che scrisse un De unitate animae. Non è curioso che si
accostino i due medici (e le loro rispettive opere) di Don Ferrando? Intendo:
il medico dei suoi cavalli e – si fa per dire – il medico della sua anima… ― Ecco,
non vorrei dare l’impressione – darla oltremisura – di essermi smarrito. Di che
parlavo più? Dei libri, dei cataloghi, delle bibliografie, delle librarìe; e
dei nomi e delle vite… E di come compongano – di come questa librarìa sia –
«un giardino di piante odorifere; le quali partoriranno frutti continuamente
purgati d’ogni amaritudine». Questa ‘tropizzazione’ torna e ritorna nominando l’origine
comune della ‘coltura’ e della ‘cultura’ (e rammentando la pianta quale prima
superficie scrittoria). Mi sbaglio? (Certo, a un certo punto si scrisse pure
sulla pelle degli animali, sulle pergamene, e l’arte dello scriba si fece…
sartoriale). Per analogia e per contrasto l’archivio del Doni mi ha richiamato
alla mente quello di Foucault, la sua Vie des hommes infâmes. Qui l’infamia, appunto, l’infamia gettata sugli
irregolari, sui balordi, sugli originali; là la fama non sempre imperitura dei
letterati, dei filosofi, degli scienziati. Qui e là libri bisognosi, testi bisognosi,
esistenze bisognose (in entrambi i sensi).
venerdì 24 febbraio 2017
giovedì 16 febbraio 2017
Se l’omosessuale deve restare una vittima

Ridotta all’osso e
nel linguaggio banalizzante, fintamente divulgativo, di un Fusaro, di un
Marletta, di una Perrucchietti e di tanti altri, l’ideologia gender (d’ora innanzi IG) negherebbe l’uomo e la donna per
spingerli nell’indistinto o, per meglio dire, in quella zona grigia dove le
identità sono disponibili, fruibili, intercambiabili, oggetto di ‘consumo’. Dissolutrice
dei legami, incapace di dinamiche compensative, l’IG produrrebbe una
fondamentale liquidità sociale, nel senso di Bauman, perfettamente congruente
al mercato globale. Di qui, va da sé, la centralità dell’omosessualità – e non dell'eterocentrismo – nelle discussioni a
senso unico sull’IG. È una centralità non
accidentale. L’omosessualità è il focus
imaginarius a partire dal quale il discorso dei sedicenti critici del genderismo acquista una sua improbabile
coerenza. L’omosessuale è (sarebbe), infatti, il prodotto ‘privilegiato’ dell’IG:
‘scegliendo’ la propria identità di genere, negando la priorità onto-biologica
del proprio sesso, l’omosessuale (e con lui la lesbica, il drag, il trans) è il
prototipo della intercambiabilità dei generi. La scelta sarebbe però una scelta
dimidiata e forzata, ideologica appunto, e avverrebbe fra le offerte
disponibili sul ‘mercato’. Non si tratta allora di condannare moralmente
l’omosessuale, che, lo si sente ripetere fino alla nausea, va accettato e
accolto, ma di attribuirgli lo status
ambiguo di vittima di un sistema, quello del mercato globale, o del capitalismo
assoluto alla Fusaro, che lo forza ad acquisire un’identità-prodotto, un’identità
che è un oggetto di consumo. (Accettate queste premesse si capisce perché
Fusaro respinga l’estensione dei diritti alle unioni tra persone dello stesso sesso).
La perniciosità di
questi argomenti è evidente; chi li definisce ‘omofobi’ non cade in errore ed è
inutile che, su questo punto, Fusaro si mostri tanto irritabile. La reductio dell’omosessuale a ‘prodotto
commerciale’ mira a estrometterlo come soggetto politico; indifferente ai costi
che, in termini di impegno, di sofferenza, di dolore, l’attribuzione-assunzione
dell’etichetta di perverso attribuitagli dalla medicina delle perversioni del
XIX secolo – con i suoi tristissimi effetti: dalle cure mediche ai programmi
dell’eugenismo, dal razzismo di stato alle persecuzioni naziste, come insegna
Foucault – ha ingenerato, questa reductio
misconosce, quando non nega tout court,
l’ardua battaglia dell’emancipazione Un’emancipazione che è passata per il rovesciamento
di una categoria medico-psichiatrica in una forma identitaria ricca, plurale, pluridimensionale
(non schiacciata sulla sessualità) e socialmente riconosciuta.
Non si capisce
nulla del cosiddetto orgoglio omosessuale (fierezza omosessuale) se non si tiene conto di questo processo e di questi gesti concretamente politici
e creativi di cultura. Produrre forme di vita e di cultura omosessuali (un tema
su cui ha insistito Foucault) è stato ed è il programma non scritto di tutte le
battaglie di emancipazione. Ma oggi più di ieri si tratta di consolidare le
conquiste e di fare un passo in avanti. L’appello oggi avanzato per il riconoscimento
delle unioni omosessuali è il gesto politico con il quale si chiede la tutela
di quelle varianti creative dei rapporti familiari prodotte dalla cultura
omosessuale che, senza protezione, restano vulnerabili e fragili.
Ciò che c’è di
davvero violento nelle affermazioni degli anti-gender sull’omosessuale sta
tutto nel volerlo ancora e sempre vittima; nel perpetuare il suo destino di
vittima. Che dicano quel che dicono e scrivano quel che scrivono per interesse
personale, per il proprio tornaconto, può suscitare
ilarità o disprezzo e, alla fin fine, poco importa. Ciò che rimane è l’ennesima
ferita.
venerdì 10 febbraio 2017
Garota de Ipanema
Mentre suono – per me,
unicamente per me – ‘Garota de Ipanema’, al pianoforte, ripenso al rapporto
Censis sulla vita erotica degli adolescenti italiani. Di cui non m’importa
nulla, ovviamente. E infatti, per essere sinceri fino in fondo, non penso
affatto a quel rapporto sibbene a quello che ne conta su (racconta) Antonio
Gurrado. Dice G.: vent’anni fa – quando G. era adolescente ed io già anziano –
le ragazze si domandavano: «Perché un ragazzo quando deve baciare una ragazza
si tira indietro?»; oggi invece: «In cosa consiste l’inseminazione
artificiale?». E ne trae tutta una lezione – per i trentenni come lui – che né
si sposano né figliano. Perché già lì, nella domanda sollevata vent’anni fa sul
«misterioso strato dell’animo umano che fa recedere dall’istinto» … Istinto?
Be’, certo, quello naturale che Iddio ci ha dato: per naturalem industriam le femmine tempore se praeparant ad partum eo modo quo facilius possit partus emitti…
D’accordo, sta parlando, il buon Tommaso d’Aquino, degli animali, delle loro
femmine che incurvantur ad fetum ecc.
ecc., ma se è un misterioso strato dell’animo umano a farci recedere da
qualcosa… L’istinto animale è in quel ‘deve’ della domanda; l’animo umano (il
suo strato misterioso) ricusante è nell’atteggiamento del ragazzo che, appunto,
si tira indietro. Insomma l’istinto di ingravidare (e di partorire) trova un
ostacolo in una sostantività umana tutta animica (o quasi). Sai dove
partoriscono le camosce? domanda Tommaso. Sono esseri minuti, abitano in luoghi
petrosi (in locis petrosis habitant)
e lì vi partoriscono (pariunt), infra
le pietre. Gli uomini non vi hanno accesso, a quei luoghi, e per questo si
domanda: Nunquid nosti tempus partus
ibicum in petris? Ciò che significa che agli uomini ciò è ignoto per (a
causa delle) le asperità del luogo (propter
asperitatem locorum). La natura è asperrima e gli uomini ne sanno poco e
talvolta la ignorano del tutto. E la ragazza di Ipanema? Che ne sa la ragazza
di Ipanema? Non c’è fretta laggiù (come in Brianza, d’altra parte: Ipanema o la
Brianza, Parigi o Zanzibar…): c’è il mare, c’è il sole; i ragazzi baciano e le
ragazze pure. La ragazza di Ipanema è molto più… più urbana, più civile: né
istinto (non partorisce fra le pietre, usa i contraccettivi e persino i
preservativi) né animica (sa farsi baciare e deplora i misteri, i misticismi),
pratica una sottile arte dei piaceri (una ars
erotica). Bref: col piffero che
pensa a figliare o a sposarsi… E se non è come gli adolescenti del Censis è
solo perché gli adolescenti del Censis sono spesso stupidi sapendo poco o punto
delle malattie sessualmente trasmissibili.
... e sulla letteratura cala il sospetto…
Qualcosa
può «esistere senza diritto», dice Bacchin, ed essere persino «universalmente
condiviso». Un errore, per esempio: esistente, persistente, condiviso, ‘partecipato’.
Non è ininfluente che lo si sappia (come) errore. Saperlo come tale e non
giustificarlo – come momento e transito verso qualcos’altro –; dargli in
soprappiù pubblicità, significa agire da… Mi veniva ‘ideologo’ ma gli ideologi
sono più spesso irretiti nel loro errore e la loro (buona) fede, in questi
casi, non si discute. Però possiamo pensare anche a ideologi in cattiva fede: e
cioè senza una fede (in ciò che sostengono). Cesare e Cicerone, con i
catilinari il primo e contro Rullo il secondo, furono forse ideologi in cattiva
(mala) fede. Il ‘caso’ dell’ideologo in malafede è interessante e c’è da
domandarsi se, nella presunta età (epoca) della fine delle ideologie (o delle
narrazioni, delle grandi narrazioni), le modeste carature politiche attuali non
siano dei casi appunto di quel genere lì; e lo ‘spaccio’ di ticket (nel senso di H. e A., e dunque
di repertorî di slogan) la dice lunga. Ma sulla tristitia del momento politico non voglio insistere. Però «in tristitia hilaris» (è un motto di
Bruno): l’esposizione dell’errore ha una sua ‘piena’ legittimità nella fiction (parola su cui occorrerebbe
spendere qualche parola…) giacché nella fiction
la domanda attorno alla legittimità (e alla provenienza) viene sospesa. Allora
l’esposizione dell’‘errore’, qui tra virgolette, avviene sotto la clausola di
una sospensione dell’incredulità che viene data per scontata. Se per esempio
sostengo la teoresi (erronea) che le rivoluzioni siano preparate dai vecchi e
che siano i giovani a condurle a termine tornando ex abrupto ai principi, alla legge; e che insomma i giovani sono
conservatori e i vecchi rivoluzionarî o casuisti (il che è lo stesso, per
paradosso); se dico tutto ciò per giungere ad affermare che i giovani sono
molto vicini «alla irrealtà, alla povertà del sognare»; se dico tutto ciò in un
romanzo (come fa Boine ne Il peccato)
– non sospenderò le mie critiche, non farò una ἐποχή, seguendo il ragionamento fino in fondo? Sappiamo tutti che il ‘critico’
delle idee espresse dal personaggio di un romanzo fa la figura
dell’illetterato: non sospendendo la propria credulità finisce per essere
credulo – o per credere alla povertà del sogno senza vedere la povertà né il
sogno (né il sogno che per lui, aggiunge ovviamente Bacchin, è la realtà). Ma
ciò significa che il ‘letterato’ (e cioè il lettore autentico) finisce per
dubitare, in un modo o nell’altro della «pretesa della letteratura alla
conoscenza» (Todorov); e sulla letteratura cala il sospetto…
Spigolature (quasi una rubrica)
Forse sui
cosiddetti social è un po’ come parlare da soli a voce alta (metteteci le
virgolette e dove vi pare). Fatti che non racconteresti agli intimi, ecco che
li sciorini costì. Perché se non è uno sfogatoio e, al medesimo tempo, un
rassicurarsi (un prendersi cura di sé)… Certo, con la speranza, o il timore,
che qualcheduno, alieno (marziano), amico o nemico, un perfetto rompiballe,
sospenda il tuo soliloquio. Penso a tutto ciò perché penso ai dialoghi di
Rousseau; e al fatto che si fece in tre per venire a capo… Cercate di capire i
miei puntini di sospensione! Venne a capo di qualcosa? Non è forse vero che
Jean-Jacques uscì a prendere un po’ d’aria, a un certo punto?
Il premier Gentiloni –
dall’ospedale, suppongo – ha firmato il via libera ai nuovi LEA (livelli
essenziali di assistenza pubblica). Vaccini gratis per tutti e l’eterologa
gratis per chi non si rassegna all’estinzione.
Ho
rischiato l’osso del collo ma mi sono procurato la legna per la notte. Ora
potrò leggere fino a domattina accanto al fuoco; giacché «è morte per le anime
divenire acqua».
Una lastra
di ghiaccio, che non ho rimosso, mi separa dalla legnaia, e fino a oggi mi sono
divertito a rischiare una caduta con il mio carico. Non è vero che i piaceri
subito fruibili si gustano non senza che siamo tentati di abusarne oltre ogni
discrezione?
Non si
possono portare due meloni sotto un sol braccio, però sopra un sol braccio si
possono portare alquanti pezzi pedagnoli o tondelli. Ho pensato anche a questo.
Non mi
dispiace l’inverno e amo il mio letargo. La primavera è impegnativa: ti
costringe a sgambate, a biciclettate; insomma a uscire per prender aria, a
riprodurti. In ogni modo non sopporterei una monotonia equatoriale (d’accordo,
c’è la stagione delle piogge).
Ficcare la
testa in una biblioteca e restare sull’uscio… non è una bella parola questa?
Alludo alla parola ‘uscio’; anzi, non vi alludo punto. Usci di avorio e
finestre di zaffiro, usci forzati o riserrati. C’è chi attacca pensieri alla
campanella dell’uscio: e cioè si dà bel tempo, senza briga di checchessia. Quanti
pensieri in una biblioteca: il campanello tintinna in continuazione. Si può
restare sull’uscio di una biblioteca? Forse se si è sbagliata la strada alla
ricerca della toilette o della cucina; sennò o dentro o fuori. Conosco persone
alle quali le biblioteche non mettono nemmeno disagio: ne ignorano quasi
l’esistenza. Altre alle quali lo mettono perché vi sono state introdotte a
forza: i danni della scuola dell’obbligo. Ma non le biasimo, le prime, e
nemmeno le seconde, se hanno altro per la testa o altrove: una carriera di
scrittore, il mercato azionario, sogni penosi o stucchevoli, l’appetito o la
fame… Non so se debbo stare a spiegare cosa intendo con ‘o dentro o fuori’ e,
in ogni caso, non ho più tempo: vo a preparare gli spaghetti alle vongole: ne
ho letta la ricetta in una rivista di fanteria.
Quale
esempio del platonismo di Hofmannsthal alcuni commentatori adducono il fatto
che abbia preposto a Ad me ipsum il
seguente esergo di Gregorio da Nissa: «Quocirca supremae pulcritudinis amator
quod jam viderat tamquam imaginem eius quod non viderat credens, ipso frui
primitivo desiderabat». Trovo molto divertente che si accordino su quel benedetto
platonismo menzionando un esergo.
Sul
‘bisogno di mondo’ (e cioè dove H. non è più ‘platonico’) penso a Elektra: vi
entra, nel mondo, con l’azione; meglio, vorrebbe entrarci con l’azione;
un’azione da nulla: scannare la madre ecc. Crisotemide, la sorella di Elektra,
in tutt’altra maniera: e cioè facendo un bambino; vorrebbe restare in cinta (in
cinta del mondo disse una volta Gould suonando il passaggio straussiano).
Una presunzione corrente vuole
che lo sragionatore possa e debba essere ricondotto alla ragione, alla placida
ragione, con un discorso razionale (‘logico’): e cioè (anche) invitandolo a un
simile discorso; invitandolo a ragionare. È vero invece che nemmeno quelli che
‘ragionano’ spesse volte fanno discorsi razionali e che nel quotidiano pensano
saltabeccando, saltando di palo in frasca. Tornando allo sragionatore, quando
lo si volesse chetare, ridurlo a miti consigli, sussurrargli una berceuse.
Riprendo in mano il volume
di Conversazione in Sicilia di
Vittorini. Amo Conversazione in Sicilia di Vittorini e amo questo volumetto einaudiano (collana NUE). Proviene, il
volumetto, dal solito mercatino dell’usato; prezzo: 2 euro. Tutte le volte che
lo riprendo in mano per una rilettura spiccia o meditata mi si squaderna su una
certa pagina dell’introduzione di Sanguineti. Il vecchio proprietario (del
volumetto) doveva essere un tipo diligente, scrupoloso. Lo do per morto giacché
non riesco a immaginare che possa essersene liberato dopo la pedante e
meticolosa glossatura (la parola esiste) cui lo ha sottoposto. Per esempio
sotto il nome di Edoardo Sanguineti leggo (e leggo tutte le volte perché è lì
che mi si squaderna): «Scrittore italiano genovese».
Fra le quattro infermità cortigiane dell’uomo, Luis Lobera de Avila, medico di sua Maestà, colloca la sciatica. E consiglia un vomitivo: vomitivi vagliono (sic!) a preservare dalla sciatica; e giovano a curarla. Soffrendone, in questi giorni, mi sono limitato a rimediare un Oki dal macellaio qui all’angolo; qui all’angolo, sulle rive del Verbano.
giovedì 2 febbraio 2017
Il giovane critico
![]() |
Thomas Bossard - La marelle |
Il giovane
critico, l’epa avvolta in magliette o maglioni, detesta la camicia; il giovane
critico, barbuto e arruffato, occhialuto, miope, un sorriso smagliante e la noja
nella ruga della fronte, detesta la propria voce che chiama – definisce – fessa;
Il giovane critico… siede scomposto. Sempre. Si tratti della sedia di una
trattoria dove mulina le braccia in lieti conversarî, di quella conferenziale
delle sedute conferenziali, dove mulina le braccia… Talvolta siede per terra,
per essere più informale, per somigliare allo studente in salopette con la
tracolla floscia.
Il giovane critico invecchia irrimediabilmente ma resta
giovane anche a trentacinque o a quarant’anni. Anche a quarantacinque. (E,
d’altra parte per tutti è e resta un giovane critico). È un Puer
aeternus; ed anche un Kulturkritiker polifonico e cacofonico. Si diverte
– e (si) perverte – nel rovesciare i giudizî critici consolidati: quello che
sta in alto lo sposta in basso; quello che sta in basso, in alto. Ed è questa
meccanicità a insospettire. Una volontà programmatica il cui programma è
arrivare: il giovane critico è un arrivista. Ha dei maestri, il giovane
critico, che ama e che rispetta; ai quali s’ispira. Sono un po’ come lui:
polemici, sarcastici... Però a tutto ciò essi sono giunti tardi, quando il ‘demi-monde’
della cultura – lasciatemi scrivere così – ha cominciato a trovarli superflui:
superflui fra i superflui.
Il giovane
critico è sempre, alla sua maniera, critico militante. Che significa critico
militante? Non vorremo davvero porci un simile interrogativo e (soprattutto) provare
a rispondervi! Non ne usciremmo vivi. (Ecco una maniera per uscirne senza
sfigurare troppo). Il giovane critico militante sa pestare i piedi ‘giusti’
benché talvolta gli capiti di pestare quelli ‘sbagliati’: in quest’ultimo caso
non se ne dispiace troppo, trovandovi l’occasione per reclamizzare la propria ‘obiettività’.
S’è detto che il giovane critico vuole ‘arrivare’; aggiungo che vuole passare
alla storia: e in ciò è confortato da una frase di René Wellek: «La critica non
può essere estromessa dalla storia letteraria».
Iscriviti a:
Post (Atom)