Fresco della lettura di Maledetti toscani (Valecchi, Firenze,
1956), non posso sentir parlare di sigari toscani senza pensare a Malaparte e
senza aggiungere all’«antico» della varietà prodotta col Kentucky, negli
opifici di Lucca, un «maledetto». Perché così sono i toscani di Malaparte: antichi
e maledetti, tra virgolette. Hanno, o vorrebbero avere – nell’immaginazione di
Malaparte – una specie di perennità che è (sarebbe) perennità dell’indole, della
mentalità, del gusto: fattori antropologici indigesti alla storia e che alla
storia, dice Malaparte, «voltano il sedere» (p. 227), ma schiettamente e senza
la presunzione di averla fatta, senza attribuirsela a parole e solo a parole
(cfr. p. 230). Schiettezza del popolo toscano che in quel voltare le spalle
manifesta apertamente il proprio disinteresse per la politica dei potenti, la
propria vocazione al «particulare» guicciardiniano, l’interesse per il proprio
orticello (cfr. p. 30). Anche «un senso casalingo della storia, per il quale
[quel medesimo] ‘particulare’ si [sente] al riparo da ogni universale
rivolgimento» (p. 30).
La celebrazione della toscanità,
avverte Giuseppe Panella nel suo bel libretto su Malaparte (L’estetica dello choc, la scrittura di Curzio Malaparte tra
esperimenti narrativi e poesia, Clinamen, Firenze, 2014), non è che una
tarda ritraduzione della posizione politica, ideologica estetica che all’autore
di Maledetti toscani proveniva dalla
partecipazione a «Strapaese». Di più, nel romanzo picaresco Avventure di un capitano di sventura,
che è del ’27, prosegue Panella, c’è già il nucleo di Maledetti toscani. (Né stupirà che uno dei protagonisti, il
cavaliere di Marsan, si trattenga in Toscana per due secoli senza avvertire il
tempo che passa). Capodopera per taluni, Maledetti
toscani, taglia corto Panella (p. 24), non brilla per originalità e appare
sopravvalutato; indulge al bozzettismo e questo è forse il suo difetto
capitale. Maurizio Serra, nella sua autobiografia malapartiana, che ho
prontamente scaricato, inclina a una critica caustica: «Il problema con Maledetti toscani […] è la sua
proclività sciovinista, zeppa di affermazioni del tipo ‘i toscani hanno un modo
di inginocchiarsi che è piuttosto quello di stare in piedi con le gambe piegate’:
un gusto trito e ritrito della battuta e del quadretto di genere, a tratti
insopportabile e, quel che è peggio, che suona falso».

Insomma, il Kitsch. Ma se sul Kitsch
posso convenire, come sul bozzettismo d’altra parte, il giudizio del biografo
mi appare eccessivamente severo. L’opera minore è davvero un «piccolo trattato
di stile»; e che lo sia non ne rimpiccolisce il valore. Inoltre, quanta
impazienza di squalificarne «i giochi di parole» e «i giri di frase» che «a un
orecchio italiano [suonerebbero] un po’ troppo datati»! Come se in un trattato
di stile – o nel pastiche – non avessero un valore proprio per quella loro
patina vintage (che è parola
impiegata anche da Panella non senza cautele). (Tuttavia, conclude Serra, «l’artificiosità
esprime una lacerazione autentica» e Malaparte «è sempre stato un mitomane,
incline all’affabulazione perché per lui la realtà non aveva alcun valore
oggettivo, verificabile». Ecco, se questa non è una banalità, è bensì un
pensiero che non significa nulla).
Maledetti
toscani seduce per la sua sapienza compositiva, seduce con la sua lingua icastica
e immaginifica (in talune pagine mi ricorda Gide), con i suoi giochi di parole
e, per impiegare un’espressione del medesimo Serra, con la sua «allegra
cattiveria».
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