Il cuore e la tenebra di Giuseppe Culicchia
Dimenticate
il politicamente scorretto. O dateci
un taglio. Questo romanzo, dichiara il
nostro autore nella nota in fondo al testo, non vuole denigrare nessuno. Il
titolo, che definire conradiano sarebbe de trop, avrebbe potuto essere un altro.
Per esempio Il lungo addio o Illusioni perdute. [1] D’altra parte,
nessun Mister Kurtz; e l’orrore è (quasi)
solo evocato; e Hitler e Himmler vi figurano come due drammaturghi efferati. La
sempre deprecabile dissoluzione della famiglia, incortinato lieu du
cœur
(de
chair au de pierre),
non spalanca abissi: Edipo, nemmeno nominato, è un petit chien d’appartement,
mamma
Giocasta si trasferisce in Vietnam e papà, papà che somiglia a Samuel Beckett, un
papà pseudo-filo-nazista ma così amorevole, a Berlino. — In una recente
intervista, che trovate su «Pangea news», [2] Giuseppe Culicchia ha ricordato
di aver tradotto American Psycho per Einaudi. Una bella impresa. Patrick Bateman (che del
romanzo Bret Easton Ellis è il protagonista), ha aggiunto
Culicchia, «aveva […] tutto quello che ci vuole per essere considerati
politicamente scorretti e infatti Ellis ricevette diverse minacce di morte».
Culicchia ha spiegato che vorrebbe fare come Ellis: «A me piace fare come lui e
mettermi dal punto di vista dei miei personaggi; direi, addirittura, che non
potrei fare altrimenti». Di una influenza ‘eastonellisiana’, Culicchia aveva già
parlato nello spassoso E così vorresti
fare lo scrittore; e, a dire il vero, l’aveva messa in dubbio. D’altra
parte ammetteva che «da quando ho tradotto BEE continuo a sentirmi dire o a
leggere in Rete roba tipo ‘questo romanzo segue il solito copione
eastonellisiano’ […] oppure ‘una specie di American Psycho torinese’». [3] Ma se i
commentatori spesso, diciamo così, insolenti s’ingannano indovinando un’influenza,
bisogna subito aggiungere che, con Ellis, un’infatuazione per i personaggi neri
o disperati, disgraziati, bêtes, Culicchia la condivide. Una precisazione
potrebbe essere questa: «Per concludere, aggiungo solo che da vent’anni a
questa parte sto cercando di scrivere una sorta di ritratto antropologico del
nostro paese». [4] Non va assolutamente trascurata: se il politicamente
scorretto è posa istrionica (da paraculo), qui, nel caso di Culicchia, si tratta
(si tratterebbe) di uno sguardo antropologico. Con tutto ciò che ne consegue.
Per esempio quello che Crapanzano, in suo vecchio libro, chiamava lo scotoma o
punto cieco dell’antropologo. Il rischio, e Culicchia dovrebbe saperlo bene, è
quello di cadere nel luogo comune. Qualche esempio. «Del resto noi italiani non
siamo seri. Non siamo un popolo serio. E non sto parlando degli ultimi presidenti
del consiglio. È una questione antropologica. Lo scriveva già Leopardi. È una
cosa comprovata dalla Storia. Per dire: i tedeschi nell’ultima guerra hanno
tenuto duro sotto le bombe […] A noi è bastata un bombardamento su Roma». [5]
Ancora: «Premesso che da un punto di vista antropologico la mancanza di ‘senso
della coda’ non fa parte solo ed esclusivamente delle caratteristiche dei
torinesi, ma di quelle degli abitanti della penisola […]»; «L’improvvisazione
d’altronde non è solo un segno dei tempi, ma è anche una di quelle cose che
contraddistinguono da un punto di vista antropologico gli italiani». [6] — Oramai
dovrebbe essere chiaro che Culicchia appartiene alla schiera dei Kulturpessimisten: e cioè alla
schiera di quelli «qui disent: comme c’est
humain, chaque fois qu’on leur montre un acte plus ou moins répugnant. [7] Ecco
perché per Culicchia – facciamola breve – mettersi dal punto di vista dei
personaggi significa anche esercitare
l’estro ilare del grottesco. Ne Il cuore
e la tenebra, salvo l’io narrante – intelligenza centrale che parla (anche)
per l’autore – i personaggi sono tutti stravaganti, di funesta
grulleria. A partire dal narratario esplicito: il padre defunto cui il
narratore palese rivolge un lungo discorso che è nel medesimo tempo diario del
lutto improvviso, nitida memoria nostalgica, congedo definitivo. Questo padre
direttore d’orchestra che ottiene la direzione dei Berliner e che s’incapriccia
dell’esecuzione furtwangleriana della Nona
di Beethoven – dell’esecuzione del 19 aprile 1942 che celebra il compleanno di
Hitler (e di cui esiste anche un frammento filmato abbastanza inquietante ma
solo per la presenza di certi figuri) –, e che vorrebbe rifarla del pari;
questo padre che legge tutto sul nazismo e sul Führer (ma che c’entra Sein und Zeit?!); questo padre che fallisce nella
vita pubblica e privata (perché divorzia); questo padre che
fa il giudice a X Factor, che schiaffeggia Allevi… questo padre – il
personaggio di questo padre intendo – naufraga nel Grottesco, nel Kitsch. Cui concorrono, bisogna subito
aggiungere, i frammenti dei suoi diari che farciscono la testimonianza del
protagonista, e cioè del figliolo, con considerazioni estetico-musicali naïf, di ingenua fantasticaggine (a p.
54 le cretinerie che nemmeno il più terchio dei musici enuncerebbe), una
cognizione dell’arte che fa pensare a uno sdilinquimento mistico, con
aberrazioni speciali nello spirito del Novecento («Comunque io credo di aver
compreso infine come il più grande interprete di Wagner sia stato Hitler, che
allo stesso tempo è stato anche l’impresario di Furtwängler»
‹p. 103›), con le foto della Berlino bombardata e dei gerarchi, quasi tutti
sorridenti, quasi tutti amorevoli padri di famiglia, e, ovviamente, di
Furtwangler; con le tigne e le lagne, l’Angst,
e il protervo parallelismo fra la propria personale vicenda e quella di Adolf Hitler,
«la più grande star dello spettacolo» secondo Hans-Jürgen Syberberg, ma anche
l’uomo che non retrocede davanti alla sconfitta (p. 79: «È come se continuando
a leggere ciò che hai scritto mi inoltrassi nel tuo cuore di tenebra»); infine con
l’accorata e incresciosa e vessatoria testimonianza dell’amore paterno: «Ti
voglio un bene infinito», passim).
Gli altri personaggi, non meno angosciastici, non meno babbei, possiedono un
peso specifico inferiore. C’è la madre polimaste e inabile che tenta di rifarsi
una vita in Vietnam sposando un banchiere svizzero; c’è un fratello che bamboleggia
passati i trent’anni. E poi, ancora, un Siegfried, acclarato neonazista, che in
un lutulento compte rendu,
sciorina notizie disperative di terza mano (dal piano Kalergi alla ‘bugia’
delle camere a gas, senza obliare la svagata profezia di 1984 di Orwell). Un facile assemblage di vernice che riciclando i miti
d’oggi (réclame, brand, griffes,
marchi di fabbrica, come in Ellis, ma Culicchia avrebbe un’obiezione, [8] come in
Houellebecq, stereotipi moti del cuore, perplessità sul divorzio, fake news, un
Occidente, va da sé, destinato al tramonto, all’estinzione ‹p. 37›) finisce per
restituirci più l’ovvio dei luoghi comuni che l’auspicata antropologia della
cui debolezza s’è già detto. E con lo scetticismo (pessimismo) ecco la satira;
che è pur sempre satira di costume, delle idées reçues. E questa è la ragione per la
quale il romanzo ‘di denuncia’, ciò che Il
cuore e la tenebra vorrebbe solo essere per un buon dieci o venti per cento,
si confonde con i settimanali d’attualità. [9] — Registro medio, talora
colloquiale. Nuoce al romanzo certa ‘balistica’. Un esempio fra i molti, e
bisognerebbe produrne molti, p. 182: «Un pomeriggio, ero a Parigi in tournée
con l’orchestra […], tu stavi giocando […] ed eri caduto dall’altalena,
rompendoti il mento»; p. 188: «Ti ricordi quando ai giardini mi sono rotto il
mento?». Comunque da leggere.
Note
[3]
Giuseppe Culicchia, E così vorresti fare
lo scrittore, Laterza, Bari, 2015, p. 113.
[4]
Ivi, p. 114.
[5]
Giuseppe Culicchia, My Little China Girl,
EDT, Torino, 2015, p. 17. Ritrovate la ‘riflessione’ nel nostro romanzo, nel
romanzo di cui parlerò fra un istante a p. 80.
[6]
Giuseppe Culicchia, Torino è casa mia,
Laterza, Bari, 2005.
[7]
La frase, lo sapete, è di Sartre; il quale la pronunciò in quella sua
conferenza intitolata L’existentialisme est un humanisme. Per
Sartre i luoghi comuni mantengono lo status
quo: «On connaît les lieux communs qu’on peut utiliser à ce
sujet et qui montrent toujours la même chose: il ne faut pas lutter contre la
force, il ne faut pas entreprendre au-dessus de sa condition». Il
discorso ci porterebbe lontano.
[8]
Solo nelle prime pagine: MasterChef, X Factor, Deutsche Grammophon, Vans,
Nintendo, Facebook, WhatsApp, Google, BlackBerry. Jean-Marc Proust ha compilato
un lungo elenco delle marche e dei prodotti menzionati da Houellebecq in Sérotonine (consultabile al seguente
URL: https://www.slate.fr/story/171894/serotonine-michel-houellebecq-roman-maladroit-vrai-decevant?amp).
L’obiezione: «Be’, se è per questo comparivano già in Tutti giù per terra e in Paso
doble, e non avevo ancora tradotto Ellis» (E così vorresti fare lo scrittore, cit., p. 113). Un’ultima
noterella: Houellebecq è stato paragonato a Ellis; inoltre i due si conoscono e
si stimano.
[9]
Trovate la pointe
in Arbasino.
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